Yoani Sánchez ha la mia
età. È nata 29 giorni prima di me, probabilmente in uno dei famosi, ben funzionanti ospedali di L'Avana.
Il fatto è che a questa donna –
blogger, dissidente, da ieri prigioniera politica – a me capita di
pensare spesso. A lei e a quel paradiso caraibico che molti faticano
ancora a definire per quello che è: un paese disgraziatamente
schiacciato da una dittatura vergognosa e infame.
Il fatto, a dirla tutta,
è che in questa mia coetanea mi capita spesso di specchiarmi. Vengo
da una famiglia comunista, da un ambiente comunista. Ho avuto
un'infanzia comunista. C'era il mito di Cuba, quello di Fidel Castro
solo contro il Golia americano, quello ancora in voga del Che
rivoluzionario globetrotter.
Quei miti hanno resistito
a tutto, anche alla fine ingloriosa del socialismo reale. Ancora oggi, sembra difficile poter dire una
parola semplice, chiara, definitiva sulla tirannia castrista: manca
la libertà, ma ci sono gli ospedali. Manca la libertà, ma mancava
di più nel Cile di Pinochet. Manca la libertà, ma gli Americani... E insomma, manca la libertà, ma pazienza.
Se ti domandi il perché
di questa persistenza del fasullo mito cubano rispetto ad altre
pagine del comunismo, qualche risposta arriva facile. A partire dal
fatto che una vacanza sull'isola sia di gran lunga
preferibile ad una settimana a Minsk o a Kiev: il sole, le
aragoste, la musica, i sigari... e anche quell'altra cosa, che c'era
ai tempi di Batista e c'è di nuovo. E che rende Cuba una meta
turistica tanto desiderata, non solo dai nostalgici del socialismo
reale.
Ma c'è qualcos'altro,
che temo abbia a che fare con una certa incapacità a fare i conti –
davvero – con la Storia. Quella che ha sancito, non la sconfitta di
un sistema politico, ma la sua brutale inadeguatezza a garantire un
minimo di speranza e di felicità ai popoli sfortunati che lo hanno incontrato sulla loro strada. Il sole, le aragoste e la musica sono oggi la triste cartolina ricordo di un “comunismo buono” che
non è mai esistito, almeno al governo di qualche paese.
Chi, come me, ha l'età
di Yoani ed è cresciuto in una famiglia comunista, ha dovuto fare un
percorso – che definirei culturale, se volessi darmi delle arie –
per uscire da quel mito, soprattutto nella versione soleggiata e
rassicurante dei Caraibi. Chi, come me, ha fatto quel percorso, sente pungere il dolore dell'ingiustizia che donne e uomini come Yoani
subiscono da quando erano bambini.
Ora che il tiranno
moribondo l'ha messa in galera, spero che quel dolore lo sentiamo tutti.
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