mercoledì 31 ottobre 2012

Va tutto bene

Si capisce che l’elezione di Rosario Crocetta è un bene per la Sicilia. Per la prima volta è scelto un presidente fuori dallo schema della destra che – da oltre vent’anni – controlla l’isola con metodi di raccolta del consenso a tutti ben conosciuti. Questo nuovo presidente, per la sua storia personale e politica, è davvero una speranza. Anche se ha preso il 30% dei voti, anche se metà dei Siciliani non ha votato, anche se ha prevalso perché il centro-destra ha presentato due candidati. Nonostante tutto, da presidente può tentare di cominciare una storia nuova e diversa per la Sicilia. Non è poco e forse è davvero un risultato storico. Spesso la Storia segue percorsi improbabili.
Quindi, più che il risultato di suo, la percentuale presa dal candidato e dai partiti, il ruolo tutto particolare dell’Udc siciliana… Ecco, più di tutto questo – che spiega come si possa vincere col 30% dei consensi senza essere per questo mezzi-vincitori –  il dato da analizzare è quello dell’astensione. Un risultato sorprendente, specie se si consideri quanto la politica sia importante in Sicilia, per il ruolo pesante e pervasivo che il settore pubblico ha nella vita e nell’economia dell’isola.
Un risultato che deve far riflettere tutti, persino il Movimento 5 Stelle. Perché è chiaro che, presente nella competizione una lista anti-sistema come quella di Grillo, il numero degli astenuti risulta ancora più sorprendente. Come sarebbe a dire? C’è il partito degli anti-partito e metà degli elettori, per manifestare il proprio distacco o disgusto dalla vecchia politica, anziché votarlo se ne sta a casa? Ecco, persino il 5 Stelle non è poi così capace di intercettare la voglia di novità e di cambiamento di molti elettori.
A maggior ragione, visti i risultati, non ne sono capaci le altre forze politiche. Purtroppo questa tendenza non è solo siciliana. La partecipazione al voto, anche alle ultime elezioni amministrative e anche dalle mie parti, è tragicamente scesa. Gli eletti sono scelti da un numero sempre più ridotto di elettori. Questo è un problema.
Questa roba qui c’entra un sacco con le nostre discussioni. Perché aprire o chiudere alla partecipazione popolare, esporsi o meno al rischio che le scelte dei cittadini siano differenti dalla volontà dei gruppi dirigenti, ha molto a che fare con la possibilità o l’impossibilità di riavvicinare almeno una parte degli elettori delusi, arrabbiati, intenzionati a non votare.
Vabbé, mica serve andare avanti, che siamo sempre lì: chi si accontenta e spera basti accontentarsi, contro chi ha capito che accontentarsi può essere assai pericoloso. E pensa che dovremmo essere noi a proporre, anziché esorcizzarla o demonizzarla, la novità capace di rimettere in moto il sistema democratico italiano. Una responsabilità non da poco, che con cavilli e ditte da difendere sarà complicato onorare.
Ma se dici che Crocetta ha preso metà dei voti della Finocchiaro la volta scorsa, Bersani si preoccupa. Perché lo dici, non perché è vero… Va tutto bene, Madama la Marchesa! Ci vuole male chi dice il contrario.

martedì 23 ottobre 2012

La paura e il coraggio

La verità è che le regole fissate per le primarie – farraginose, inutili, da azzeccagarbugli – sono lo specchio della realtà. Ci sarebbe da discutere a lungo su quale Partito Democratico possa avere in mente chi costruisce certi muri e pianta simili ostacoli alla partecipazione dei cittadini. Ci sarebbe da discutere sulla sincerità di adesione di molti a quel progetto, che aveva presupposti e ambizioni opposti.
Ne avremmo molte da dire, sul ripiegamento del Pd intorno alla propria organizzazione, su una mistica del “partito forte” che ha prodotto – non paradossalmente – l’esatto contrario: un partito sempre più piccolo, con meno iscritti, meno sezioni, meno radicamento territoriale, meno feste. Non paradossalmente, perché se ti rinchiudi nel fortino, molti se ne vanno. Non solo i cittadini che partecipano alle primarie, ma anche gli iscritti che non riconoscono più il loro Partito e le migliaia di volontari – pochi dei quali con la tessera in tasca – che ogni anno lavorano nelle feste di quel Partito.
Ci sarebbe molto da dire, ma ho l’impressione che siamo all’epilogo. Tutto sta a vedere come questo epilogo si consumerà. Perché una cosa è ormai chiara: questo Partito Democratico ha fatto il pieno, è un partito che vale il 25%, che può prendere un paio di punti in più se ne azzecca qualcuna. Ma che può scordarsi – se non dopo un profondo cambio di prospettiva – di andare oltre, con tutte le implicazioni del caso.
Ci sono due modi di guardare al futuro e due epiloghi possibili: quello di chi si accontenta e quello di chi non ha più voglia di accontentarsi. E le regole ne sono lo specchio: chi pensa che il problema sia difendersi dagli assalti, resistere e arrivare alle elezioni, sperando che le difficoltà degli avversari ci facciano vincere. Contro chi pensa che il centro-sinistra debba proporre una grande svolta politica, un rinnovamento profondo nei metodi e nelle persone, un programma al passo con i tempi, calato in modo pragmatico in una realtà che, da difficile, può trasformarsi in occasione per nuove opportunità.
Alla fine, è proprio un confronto tra conservazione e novità. E nessuno dubita che le regole per le primarie, scritte così, siano farina del primo sacco: “figlie della vostra paura, non del nostro coraggio”, come ha detto Matteo.
Il problema è che le regole non sono forma, ma sostanza. Se già adesso il Pd è in grosse difficoltà e rischia di subire l’assalto di Grillo o qualche invenzione berlusconiana dell’ultimo minuto, come starebbe se le primarie fossero un flop? Come starebbe se Bersani le vincesse con un numero di partecipanti molto inferiore a quello delle precedenti tornate? Su questo avete ragionato? Perché si capisce che l’unico risultato – certo – di queste regole sarà un disincentivo alla partecipazione.
Da queste primarie rischia di uscire un Pd più debole, meno ambizioso, meno credibile di quello che ci entra. Non perché il Partito si spacca, o qualcuno lo spacca, ma perché la difesa della “Ditta” si manifesta, ogni giorno di più, per quello che è: la difesa dei titolari della ditta. Quel Pd non avrà la forza per imporsi con nessuno e Bersani non sarà il prossimo Presidente del Consiglio. Perché, bene che vada, saremo il partito di maggioranza relativa. Assai relativa. Se andrà bene, potremo partecipare al Monti-bis, con buona pace di chi sulle polemiche contro il Governo che sostiene sta facendo anche la campagna delle primarie. Se andrà male, meglio non pensarci.
Con Matteo Renzi si può rovesciare questo quadro. Perché Matteo parla a tutti e può convincere molti elettori delusi, sparpagliati, in attesa di una novità. Esattamente quello che gli viene rimproverato: piacere a chi “non vota” per il Partito Democratico. Ma che lo voterebbe, se fosse lui il candidato. E vaglielo a spiegare… Matteo può uscire dal fortino. Non per mettersi d’accordo con gli indiani, ma per raccogliere gli elettori stufi, stanchi, sfiduciati. E far crescere, di molto, i voti al nostro Partito.
Ecco, chi vuole bene al Partito Democratico e vuole vederlo al governo dell’Italia, dovrebbe riflettere. Perché se mettiamo da parte per un attimo la propaganda, le bugie e tanta paura del Babau seminata ad arte, potremmo scoprire che al Pd “conviene” la vittoria di Matteo alle primarie.

lunedì 22 ottobre 2012

Bisogna sorridere

Bisogna sorridere, per diverse ragioni.

Intanto perché abbiamo un progetto e una speranza. Poi perché sorridere fa bene. Ancora, perché chi ha coraggio sorride. E adesso è il tempo del coraggio. Infine, perché se 1.200 persone – alle quattro del pomeriggio di una domenica più fine estate che inizio autunno – si ritrovano in una sala di Alessandria per un’iniziativa politica del centro-sinistra, dovremmo sorridere tutti. Persino quelli che, invece, si sono incazzati. E pazienza per loro…

C’è una proposta, tra le molte illustrate ieri da Matteo Renzi, che ha dato particolarmente fastidio: quella di “restituire” 100 euro al mese ai lavoratori dipendenti che prendono meno di 2.000 euro al mese. Si tratta di un intervento costoso, sui 20 miliardi di euro, che Matteo propone di finanziare con un taglio del 10% della spesa “intermediata” dal settore pubblico.

Ci sono due modi per giudicare questa proposta. Entrambi legittimi, per carità. Capaci però di chiarire quali siano, a parte le polemiche pretestuose e i battibecchi, le vere differenze programmatiche tra il centro-sinistra di Renzi e quello proposto da Bersani.

C’è chi pensa che la spesa pubblica sia un dato di fatto, un aggregato che può aumentare se aumentano le entrate (qualche volta anche senza e si vedono i risultati…), ma la cui diminuzione non è, né può mai essere, all’ordine del giorno. È la visione di quegli amministratori e di quei governanti che, a ogni giro, aggiungono le proprie iniziative – e le proprie spese – a quelle che c’erano prima. Allineandosi alla comprensibile (ma non giustificabile) tendenza delle burocrazie ad autoalimentarsi e a crescere.

C’è chi, all’opposto, ritiene che la spesa pubblica debba essere tenuta sotto stretto e costante controllo. Le sue ragioni e giustificazioni devono essere riviste (la “review”…) spesso. Le spese che non servono si tolgono. Quelle che possono essere ridotte, si riducono. Sempre e comunque, perché non sono soldi nostri. E perché, se fare un chilometro di autostrada costa il doppio qui che in Germania, o qualcuno ci mangia o qualcuno è incapace. Ma l’unica cosa che bisogna fare è: cambiare.

Siccome nel Partito Democratico è pieno di persone serie e intelligenti, da molti anni l’obiettivo di ridurre la spesa pubblica è un nostro obiettivo. Da molti anni, denunciamo che il centro-destra, mentre predica il risparmio e il rigore, lascia correre le spese per beni e servizi, senza controllo e senza vergogna. Appartiene al patrimonio di esperienze e all’elenco, breve o lungo fate voi, di successi del centro-sinistra di governo il fatto di avere governato l’Italia meglio dei nostri avversari quanto a controllo della spesa pubblica.

Dunque, avrebbe senso ritrovarci tutti dalla stessa parte. Magari a dirci che l’idea di Matteo Renzi – per le sue implicazioni sociali, ma anche per l’impatto macroeconomico di un così potente rilancio dei consumi privati – è una buona idea. Magari, un’idea da realizzare comunque. Così parliamo di contenuti.

Ma chi vive di riflessi condizionati e su questi ha costruito un’intera storia politica, non ce la fa: a Matteo Renzi tocca il ruolo del nemico da abbattere, il portatore di interessi diversi da quelli dei lavoratori, delle donne, dei giovani, dei pensionati… il “Babau” che fu Berlusconi e che ora DEVE essere qualcun altro.

Così, la spesa intermediata diventa un totem da difendere, senza se e senza ma, dall’assalto dei nemici del popolo. Ridurre la spesa intermedia, significa non comprare le siringhe o la carta igienica per le scuole. E significa anche – così è stato scritto – che i comuni vanno al collasso e Alessandria non riuscirà a pagare gli stipendi. Sarà contento l’ex sindaco Fabbio di sapere che, se i dipendenti comunali resteranno senza stipendio, sarà colpa dei tagli di Monti e persino delle proposte di Renzi. Lui, Fabbio, si era quasi convinto che la colpa fosse sua.

Ma noi dobbiamo sorridere. E lasciare che siano gli altri ad arrabbiarsi, se non hanno di meglio da fare. Anche perché si arrabbiano a ragion veduta: Matteo la spesa l’ha ridotta davvero, a Firenze. E pure le tasse ha ridotto. Ha fatto la patrimoniale, perché ha aumentato l'IMU sulle seconde case e con quei soldi ha abbassato l'Irpef. Proprio come abbiamo fatto a Novi Ligure. Ma non ditelo in giro, che si arrabbiano ancora di più.

venerdì 19 ottobre 2012

Vedi Napoli


Guardate che Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli, si lamenta. Riunirà il consiglio comunale davanti a Montecitorio per protestare contro il decreto “salva-comuni”, quello da cui è stata esclusa Alessandria e nel quale è invece ricompresa la sua città. Se capisco bene, dopo aver detto che non vuole leggi speciali e soldi a fondo perduto, l'ex magistrato lamenta il “commissariamento” dei comuni in difficoltà: tasse locali al massimo e controllo sui bilanci, in cambio di aiuti. Poi ci mette il carico da novanta: “E invece comprano i cacciabombardieri”. Vergogna. In effetti, quei soldi sarebbe meglio spenderli per finanziare, senza limiti e senza condizioni, i comuni che hanno fatto saltare i conti...

Lo dico perché non vorrei che qualcuno pensasse – perso nel dibattito falso tra amici e nemici del dissesto alessandrino – che il problema sarebbe risolto, se solo Alessandria venisse inclusa nel decreto “salva-comuni”. Purtroppo, non è così. E temo ci siano un paio di dettagli sui quali vale la pena di riflettere.

Il primo, di cui si è accorto De Magistris: la festa è finita. Soldi non ce ne sono più, né a Roma né altrove. Non è più tempo per interventi a pioggia e azioni straordinarie. Non possiamo più permetterci di “salvare” nessuno, se questo vuol dire mettere a carico del bilancio dello Stato le perdite degli enti locali. Perché lo Stato non ha i soldi per farlo e perché gli enti da “salvare” sono troppi. Da ieri, pare, si è aggiunta all'elenco anche la Regione Piemonte. Dunque, gli aiuti statali potranno dare fiato, sorreggere in qualche modo uno sforzo – spesso doloroso – che i territori dovranno però fare da soli: riducendo le spese, aumentando le tasse, riorganizzando e tagliando.

Il secondo, che discende dal primo: l'esclusione di Alessandria dagli aiuti appare ancor più fastidiosa, proprio dopo le parole di De Magistris. Perché ad Alessandria, magari con errori ma con impegno, stanno lavorando per rimetterli in ordine, i conti. E mi pare che l'amministrazione tutto abbia in mente tranne che la mobilitazione politica di queste settimane possa portare a scaricare sullo Stato il peso del dissesto.

Temo invece che tra i “nemici del dissesto”, a parte i “giapponesi” dell'ex sindaco Fabbio asserragliati nel loro ridotto, qualcuno non abbia ancora capito: se pensi che il problema non sia la situazione oggettiva dei conti, ma qualche cavilloso gioco politico che ti tolga le castagne dal fuoco, rischi di fare più danni di quelli che risolvi. E rischi, soprattutto, di mettere in testa alle persone che scendono in piazza che il problema abbia una soluzione facile. Bastava non dichiarare il dissesto. Sì, vabbé... Oppure, basta la volontà politica, come si dice.

Sappiamo che non è così, manco per niente. Che non ci sono soluzioni facili. Che business as usual non si potrà farlo. Ma bisogna spiegarlo proprio bene. Perché il giorno dopo l'intervento dello Stato, se ci sarà, non tutto sarà risolto. E il sostegno popolare che ha riempito le strade di Alessandria servirà più di adesso, per rendere tollerabile e comprensibile un non breve periodo di difficoltà e sacrifici.

In un'altra situazione, farebbe sorridere la gente che fa polemica perché “non si fosse dichiarato il dissesto, sarebbe tutto risolto”. In questa, di situazione, mette tristezza.

martedì 16 ottobre 2012

Il vento

Un mese fa, L’Unità pubblicava la recensione di Massimo D’Alema all’ultimo romanzo di Walter Veltroni. La notizia, che suscitò migliaia di commenti negativi sui social network, veniva data con molta enfasi: si chiudeva una storia di rivalità iniziata 18 anni fa, quando Veltroni era stato battuto da D’Alema nel consiglio nazionale che doveva scegliere il nuovo segretario del Pds. Questo, nonostante Walter fosse il preferito dalla base, ai tempi inutilmente consultata sull’argomento. Sembrava aprirsi, in vista delle elezioni politiche e alla faccia delle velleità rottamatrici, una stagione di concordia tra tutte le componenti storiche del Pci-Pds-Ds-Pd.
Oggi, dal sito del giornale fondato da Antonio Gramsci, partono e-mail per informare di una ultim’ora: Bersani dichiara che non chiederà a D’Alema di ricandidarsi al Parlamento. L’altro ieri era stato Veltroni a fare, volontariamente, un passo indietro: discorso chiuso, in due giorni, per entrambi i vecchi duellanti dell’estate 1994. Sempre che D’Alema non decida di portare fino in fondo la sua personalissima sfida, chiedendo comunque la deroga e mettendo in un imbarazzo forse insostenibile il suo candidato alle primarie per la premiership.
Nel giro di un mese, il mondo è cambiato. Per carità, si parla di un mondo piccolo e piuttosto antico. Anzi, molti penseranno che lo stesso parlare di queste cose sia l’esercizio di chi ama guardarsi l’ombelico, e non si occupa delle cose davvero importanti.
Ma come diciamo da un pezzo noi che proponiamo la rottamazione (quella che sempre oggi L’Unità chiama attitudine “fascistoide”) il ricambio dei vertici e l’uscita di scena dei protagonisti del centro-sinistra degli ultimi trent’anni è condizione necessaria – certo non sufficiente, ma strettamente necessaria – per rendere credibile una proposta di governo alternativa alla destra e ai nuovi populisti. La sequela di errori e sconfitte accumulati in questi lunghi anni rende necessario – in primo luogo agli occhi dei nostri elettori – quello che noi chiamiamo rottamazione e che da questa mattina persino Pierluigi Bersani invoca, sebbene con un altro nome: rinnovamento.
Il vento del cambiamento era tanto simile a una romantica illusione di qualche giovinastro ambizioso, che oggi spalanca davvero le porte e le finestre del Pd. Imponendo l’agenda del ricambio generazionale e rendendo irrimediabilmente indifendibile ogni tentativo di resisterle.
Questa evoluzione – in cui molti speravano, ma che non era scontata – si accompagna al definirsi, col passare dei giorni e delle settimane, delle diverse proposte programmatiche.
Nessuno dice più che Matteo Renzi non ha un programma. E tutti – o quasi – hanno capito che non basterà liquidarlo come “di destra” per averne ragione. Oggi è chiaro a tutti che c’è in campo – nel campo del centro-sinistra… e dove sennò? – una proposta nuova di rinnovamento dell’economia, della società e della politica di questo Paese. Che sarà capace di raccogliere ampi consensi in tutta la società assumendo la guida dell’Italia.
Europa, Futuro, Merito sono le parole che soffiano nel vento di questo autunno. Quel vento che, finalmente, abbiamo capito a cosa serve. E che no, con le mani, non si può proprio fermare.

mercoledì 10 ottobre 2012

Il Bianconiglio

Oggi Massimo D’Alema ha messo in chiaro un po’ di cose. Intanto, non intende rinunciare a ricandidarsi al Parlamento, dove siede da 7 (SETTE) legislature. Non lo fa per non darla vinta a Matteo Renzi, che vuole rottamarlo. E ovviamente, si rimette alla volontà del Partito, pur ricordando che egli è il presidente di una fondazione europea tanto importante da renderlo, più o meno, indispensabile.

Verrebbe da chiedersi cosa facciano oggi nella vita quelli che sono stati – come D’Alema – protagonisti della vita politica europea negli anni ’80 e primi ’90. Per dire, Lionel Jospin si è ritirato nel 2002, dopo l’eliminazione dal primo turno delle presidenziali francesi. D’Alema vuole fare il ministro nel 2013, 14 (QUATTORDICI) anni dopo le sue dimissioni da capo del Governo, date a seguito di una pesante sconfitta elettorale. E 38 (TRENTOTTO) anni dopo la sua nomina a Segretario Generale della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Era il 1975, quando Matteo Renzi e io siamo nati. E Obama iniziava il liceo.

D’Alema si rivolge al Partito, che dovrà decidere sul suo futuro. Il Partito che, mentre modificava lo statuto per fare le primarie, aggiungeva un’interpretazione autentica della norma sul limite dei mandati: non tre mandati parlamentari – vale a dire, ti candido una volta, poi ti candido un’altra volta, infine ti candido una terza volta… poi basta – ma la durata di tre mandati parlamentari pieni – vale a dire 15 anni, cioè nella situazione attuale, quattro mandati. Quel partito lì, che si preoccupa di fornire simili, fondamentali, interpretazioni autentiche, avrà la forza di decidere che 7 (SETTE) mandati – almeno quelli, almeno… – sono abbastanza? Vedremo.

Resta il fatto che, se ieri la notizia erano le dimissioni, oggi sono le non-dimissioni. Come D’Alema non si ritira, così il mio amico Paolo Filippi non si dimette – entro oggi – da Presidente della Provincia di Alessandria per potersi candidare alle elezioni politiche di primavera. Ieri mi ha dato del populista e magari ha ragione. Ma continuo a non spiegarmi perché dovrebbe fare notizia il fatto che non si dimetta. Semmai, perché avrebbe dovuto dimettersi, proprio ieri? E perché dovrebbe essere un atto eroico quello di rimanere al posto nel quale gli elettori ti hanno messo?

Sembra la storia del Bianconiglio di Alice, quello che festeggiava tutti i giorni il suo non-compleanno. Dunque, visto che questo è l’andazzo e soprattutto per tranquillizzare gli amici, lo dico anch’io: oggi non mi dimetto. Ma anche: oggi non sono ammalato, oggi non mi sposo, oggi non cambio lavoro. Oggi nessuno di noi si è fatto male, non si preoccupi il presidente del Copasir…

Oggi è il mio non-compleanno. Fatemi gli auguri, please.

martedì 9 ottobre 2012

Quelli che... si dimettono

Poi ce l’hanno con me, che le province le voglio abolire.

Dunque, la notizia del giorno sono le dimissioni a catena dei presidenti di provincia: Asti, Biella, Milano, Napoli… e l’elenco si allungherà. L’accorpamento degli enti più piccoli – con tutto il codazzo di recriminazioni e polemiche da strapaese che lo accompagna – e la nascita delle città metropolitane sono le motivazioni presentabili di queste scelte. Col buon peso dei tagli governativi, che rendono “impossibile continuare l’attività”, mettono “in discussione i servizi”, “a rischio i posti di lavoro”.

La verità, purtroppo, è un’altra. Meno nobile e più inconfessabile: i presidenti si dimettono per potersi candidare alle prossime elezioni politiche. In qualche caso, per potersi ri-candidare, perché la legge impone le dimissioni anticipate – in questo caso, entro domani – a chi fa il sindaco o il presidente di provincia per poter correre alla Camera o al Senato. Ma non vieta a un deputato o senatore di candidarsi a presidente di provincia e, persino, di restare in Parlamento una volta eletto nell’ente locale. D’altronde – sia detto a vantaggio degli amministratori locali “puri” – le leggi le scrivono i parlamentari. Così, ci sono presidenti di provincia che già siedono in Parlamento e vorrebbero restarci. Altri che, ridotto o azzerato il loro ruolo amministrativo, vorrebbero andarci.

In ogni caso, i presidenti si dimettono, raccolgono le loro cose e salutano. Salutano gli assessori, tanto numerosi quanto spesso impegnati su deleghe che con le competenze delle province c’entrano niente. Salutano i consiglieri provinciali, anche quelli che contavano sui rimborsi spese per andare alla sagra della fagiolana. Salutano i dipendenti, quelle migliaia di lavoratori sui cui timori e preoccupazioni i presidenti hanno costruito mesi di polemiche e lamentazioni verso Roma. Li salutano e li lasciano soli di fronte a un futuro incerto.

Qualcuno ha creduto davvero che la difesa dell’ente provincia, della sua organizzazione e delle sue competenze, delle sue strutture e sovrastrutture politiche, rispondesse a ragioni diverse dalla conservazione del ruolo e del potere dei suoi amministratori? Beh, se qualcuno lo ha creduto, si è sbagliato.

Ora che il tempo stringe, i politici di provincia si sfilano e sperano nel grande balzo verso Roma. Fosse vero un 10% delle tragedie che hanno evocato nei mesi scorsi per i territori da loro amministrati, per la coesione sociale, per il personale dipendente degli enti interessati… Ecco, fosse vero il 10% delle disgrazie che hanno previsto come certa conseguenza della riforma voluta dal Governo, dovrebbero sentire il dovere assoluto di restare al loro posto, sino all’ultimo giorno, per gestire l’emergenza e salvare il salvabile.

Invece se ne vanno. E dimostrano che l’unica cosa davvero da salvare è la loro, personale, carriera politica.

lunedì 8 ottobre 2012

Lessico Famigliare 2.1

“Renzi è un cialtrone” (Rosa Russo Iervolino)
“Renzi è da rottamare” (Niki Vendola)
“Renzi? Messaggi berlusconiani. Lavoro per sconfiggerlo” (Rosy Bindi)
“Renzi dovrebbe dire cosa vuole fare per cambiare l'Italia” (Marina Sereni)
“Renzi non ha mai lavorato in vita sua” (Sergio Cofferati, dipendente Pirelli in aspettativa)
“Quella di Renzi è un’aggressione” (Massimo D’Alema)
“Forse non è così furbo come dicono; altrimenti sarebbe venuto qui, a parlare. Non può mica sempre cavarsela recitando i format di Gori” (Franco Marini)
“Ma lo sapete che Renzi vuole la privatizzazione dell’Inail?” (Laura Puppato)
“Lei lo sa che Renzi per la campagna ha già speso due milioni e 35 mila euro?”. Perché proprio 35 mila euro? “Lasci fare, che di queste cose me ne intendo. Ho calcolato tutto: camper, sale, alberghi, ristoranti…”. E da dove vengono i soldi? “Secondo me anche dall’estero…” (Ugo Sposetti)
“Le chiacchiere che girano tra i detrattori del sindaco di Firenze sono intrise di teorie da complotto giudo plutaico massonico: i finanziamenti arrivano da Israele e dalla destra americana” (Anonimo Democratico, dal Corriere della Sera)

Tra l’altro, pare che Matteo Renzi abbia la bomba atomica, ma non lo dice. Ah, sapesse Hugo Chavez di questo ennesimo complotto demo-pluto-clarabella-topolino, lo sistemerebbe lui…

domenica 7 ottobre 2012

Santi in Paradiso


Diciamolo, questa storia del Governo che salva i comuni nei guai, ma esclude Alessandria, non sta in piedi. Se c'è da scendere in piazza, ci vado anch'io.

La motivazione che gira è che Alessandria - avendo già dichiarato il dissesto - è in una situazione diversa dagli altri. Dando così ragione agli "ultimi giapponesi" dell'ex sindaco Piercarlo Fabbio, disperatamente intenti a spiegare che il dissesto è stato "voluto" da Rita Rossa, l'attuale sindaco eletto la scorsa primavera. Sono balle, perché il dissesto - che è un fatto, non un'opinione - c'era da mesi e da mesi avrebbe dovuto essere dichiarato. E sono balle perché la sacrosanta analisi della Corte dei Conti imponeva la dichiarazione di dissesto. Senza se, senza ma e senza spazi di mediazione. Quelli se li era bruciati tutti Fabbio nella sua strenua e inconsistente resistenza pre-elettorale.

Ma certo, se spieghi che ormai non c'è più niente da fare, quelli pensano pure di aver ragione. Se poi qualcuno si accorge che i comuni "salvati" sono in meridione, tocca trovare altri quindici conti in Tanzania, per evitare che la Lega riprenda fiato.

Ma diciamolo chiaramente: il concetto di "salvataggio" dei comuni in difficoltà è di suo sbagliato. Una roba che tradisce ogni idea di federalismo e autonomia. Abbiamo detto per anni - io dal 1994, quindi sono tra i più colpevoli - che volevamo più federalismo e quindi più responsabilità. Abbiamo fatto leggi e una riforma costituzionale per questo. Se i risultati, dopo qualche anno, sono il panorama di sprechi e schifezze delle regioni e il "salvataggio" dei comuni falliti, dovremmo dire che ci siamo sbagliati. Chiedere scusa, io per primo. E magari tornare indietro.

Registro che il dibattito sul "tradimento di Roma" ha preso questa strada: chi sperava nell'aiuto del ministro alessandrino Renato Balduzzi o dei parlamentari locali e ne è rimasto deluso contro chi di Balduzzi non si fidava e ripete "ve l'avevo detto io". In pratica: Alessandria non ha santi in Paradiso. Oppure, quelli che ha non hanno voluto, potuto, saputo aiutarla. Non mi sembra un bel dibattito. E non vorrei vivere in un Paese dove ottieni ciò che ti spetta solo se hai un amico influente a Roma.

Restando ai fatti e agli argomenti che si possono usare in questa "vertenza": il disastro lo hanno fatto gli altri. Certo, questo non basta, che altrimenti ogni nuova amministrazione potrebbe disconoscere i debiti fatti da chi c'era prima. E in sei mesi finiremmo, tutti, peggio della Grecia.

Ma possiamo dire almeno tre cose. La prima. Rita Rossa e il centro-sinistra alessandrino hanno denunciato per tempo il baratro che si stava aprendo nei conti del comune. E lo Stato avrebbe potuto intervenire prima, coi poteri che ha, anziché attendere le elezioni. La seconda. Rita Rossa ha iniziato da subito un lavoro di sistemazione dei conti che, già difficile, potrebbe rivelarsi impossibile se non supportato. La terza. Dove governiamo noi - non dico in Emilia o in Toscana, ma proprio in provincia di Alessandria - i disastri non li facciamo. E non sempre lo Stato ci premia.

A questo proposito, faccio due esempi da iscrivere alla voce coerenza dello Stato in materia di autonomie locali.

Uno: la sezione di controllo della Corte dei Conti ha chiesto a molti comuni - giustamente - di togliere dai loro bilanci i crediti più vecchi di cinque anni. Perché l'anzianità li rende inesigibili per definizione. Il comune di Novi ne ha cancellato circa un milione, chiudendo il bilancio con soli 160.000 euro di disavanzo. Qualche giorno dopo, la spending review ha invece imposto la svalutazione del 25% di questi crediti. Vale a dire, per chi ancora li ha nel bilancio, uno sconto del 75%... E molti amministratori, nonostante questo, si lamentano.

Due: rimettere soldi nelle tasche delle famiglie è fondamentale per far ripartire i consumi. Lo dicono tutti e lo ricorda anche il Governo. A Novi lo abbiamo fatto, cambiando l'addizionale Irpef e applicandola per fasce di reddito. Il ministero ci ha detto che non si può, che bisogna usare gli scaglioni, sennò viene meno la progressività... Come se la progressività fosse garantita da una tassa che puoi applicare con la stessa aliquota a chi guadagna 10.000 euro e a chi ne guadagna 10 milioni. Il risultato è che l'addizionale Irpef per chi ha un reddito medio e basso scende rispetto allo scorso anno, ma non quanto avremmo potuto e voluto. Va appena notato, a proposito di autonomia, che questa partita non incide per un euro sul bilancio dello Stato.

Ecco, per dire. Ma sono quasi stufo di dire, su questi argomenti potremmo ampliare la "piattaforma di rivendicazioni" di un territorio e - se vogliamo - di una parte politica. Che a Roma - accompagnati o meno - possono presentarsi forti, non di comprensibili recriminazioni, ma di buoni esempi, di pratiche positive, di un'autonomia esercitata con responsabilità e con giudizio. E non ricevono premi.

Se c'è da scendere in piazza, rischiamo di essere più forti. E più numerosi, persino.

venerdì 5 ottobre 2012

Yoani e noi


Yoani Sánchez ha la mia età. È nata 29 giorni prima di me, probabilmente in uno dei famosi, ben funzionanti ospedali di L'Avana. 

Il fatto è che a questa donna – blogger, dissidente, da ieri prigioniera politica – a me capita di pensare spesso. A lei e a quel paradiso caraibico che molti faticano ancora a definire per quello che è: un paese disgraziatamente schiacciato da una dittatura vergognosa e infame.

Il fatto, a dirla tutta, è che in questa mia coetanea mi capita spesso di specchiarmi. Vengo da una famiglia comunista, da un ambiente comunista. Ho avuto un'infanzia comunista. C'era il mito di Cuba, quello di Fidel Castro solo contro il Golia americano, quello ancora in voga del Che rivoluzionario globetrotter.

Quei miti hanno resistito a tutto, anche alla fine ingloriosa del socialismo reale. Ancora oggi, sembra difficile poter dire una parola semplice, chiara, definitiva sulla tirannia castrista: manca la libertà, ma ci sono gli ospedali. Manca la libertà, ma mancava di più nel Cile di Pinochet. Manca la libertà, ma gli Americani... E insomma, manca la libertà, ma pazienza.

Se ti domandi il perché di questa persistenza del fasullo mito cubano rispetto ad altre pagine del comunismo, qualche risposta arriva facile. A partire dal fatto che una vacanza sull'isola sia di gran lunga preferibile ad una settimana a Minsk o a Kiev: il sole, le aragoste, la musica, i sigari... e anche quell'altra cosa, che c'era ai tempi di Batista e c'è di nuovo. E che rende Cuba una meta turistica tanto desiderata, non solo dai nostalgici del socialismo reale.

Ma c'è qualcos'altro, che temo abbia a che fare con una certa incapacità a fare i conti – davvero – con la Storia. Quella che ha sancito, non la sconfitta di un sistema politico, ma la sua brutale inadeguatezza a garantire un minimo di speranza e di felicità ai popoli sfortunati che lo hanno incontrato sulla loro strada. Il sole, le aragoste e la musica sono oggi la triste cartolina ricordo di un “comunismo buono” che non è mai esistito, almeno al governo di qualche paese.

Chi, come me, ha l'età di Yoani ed è cresciuto in una famiglia comunista, ha dovuto fare un percorso – che definirei culturale, se volessi darmi delle arie – per uscire da quel mito, soprattutto nella versione soleggiata e rassicurante dei Caraibi. Chi, come me, ha fatto quel percorso, sente pungere il dolore dell'ingiustizia che donne e uomini come Yoani subiscono da quando erano bambini.

Ora che il tiranno moribondo l'ha messa in galera, spero che quel dolore lo sentiamo tutti.

giovedì 4 ottobre 2012

Contenuti. E numeri

Qualche amico mi ha chiesto se è proprio vero che abbiamo abbassato l'addizionale comunale Irpef, a Novi Ligure. In effetti sì, l'abbiamo abbassata. Quasi a tutti.

Ad esempio, così cambia il prelievo rispetto al 2011, in base al reddito annuo lordo individuale:


E questo è il risparmio - o l'aggravio - di spesa per un anno, sempre rispetto al 2011:

E qui il confronto con quello che succede negli altri comuni più grandi in provincia di Alessandria. Come dire, il benchmarking:



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