mercoledì 24 aprile 2013

Coraggio, generosità e unità

Abbiamo dalla nostra il tempo, l’entusiasmo e la libertà. Per questo, alla fine, vinceremo noi.
Le convulse vicende di ieri hanno reso chiaro un fatto che andiamo spiegando da molti mesi: Matteo Renzi è l’unico leader del centro-sinistra capace di far paura a Silvio Berlusconi. Perché Matteo Renzi è l’unico che può batterlo. Non smacchiarlo, né mandarlo in prigione: semplicemente, mandarlo in pensione. Perciò Berlusconi ha paura e non si fida. Non si fida, soprattutto, di chi all’interno del Pd ha accarezzato l’idea di “bruciare” Renzi mandandolo oggi a Palazzo Chigi.
L’altra cosa che si è capita chiaramente – una volta depositata la cortina fumogena della propaganda – è che i referenti di Berlusconi all’interno del Pd non hanno nulla a che fare con Renzi. Di più, sono gli avversari di Renzi: quelli che hanno proposto Franco Marini per il Quirinale e che hanno affossato Romano Prodi nel segreto dell’urna.
Esiste un’alleanza di fatto, una convergenza parallela di interessi inconfessabili che può trasformare le “larghe intese” – scelta nobile, seria ed europea – nell’ “inciucio”. Qualcosa di molto meno nobile, serio ed europeo. Questa alleanza si basa sulla semplice considerazione che, una volta messa da parte la vecchia guardia del Pd (quella che ha perso, poi ha riperso, poi ha perso ancora, infine ha perso), non ci sarà più spazio nemmeno per Silvio Berlusconi. E viceversa. Si tenevano in piedi combattendosi, si tengono in piedi collaborando. Anche se non si fidano gli uni degli altri.
Ora, quello che si è provato a fare ieri, la presa di potere improvvisa da parte dei trenta-quarantenni, un putsch simile a un “Midas democratico”, era probabilmente un azzardo. Mandare oggi Matteo Renzi a Palazzo Chigi avrebbe comportato rischi pesanti. A partire dal pericolo di bruciare l’unica figura forte su cui il Pd potrà contare nei prossimi anni. Ma il metodo è quello giusto: una nuova generazione di dirigenti che si impone – senza timori e a viso aperto – come alternativa a quelli che hanno perso, riperso, perso ancora e infine perso.
Dicono non sia una questione anagrafica, che contano le idee. Io dico che sono storie e che, se non cambiamo prima le donne e gli uomini, non cambierà nulla. Soprattutto, non riconquisteremo il consenso degli Italiani.
Costruire un’alleanza generazionale vuol dire mettere la questione del ricambio prima e sopra tutto il resto. Perché si possono avere idee differenti e si può discutere, come peraltro fanno da trent’anni gli attuali dirigenti del Pd, partecipando ad un comune sforzo per dare al Paese un Partito Democratico forte e credibile. Se il repentino cambio di rotta pro-Renzi dei “giovani turchi” solleva qualche comprensibile sorriso, ci sono altri – più credibili, ma forse meno disponibili – che dovrebbero riflettere sull’importanza del passaggio al quale siamo arrivati.
Scrivevo a Giugno dello scorso anno che “siano di Firenze, di Monza o di Udine - quelli che ritengono necessaria questa alternativa devono lavorare insieme per costruirla. Insieme. Per vincere le primarie, vincere le elezioni e governare l'Italia. Servono coraggio, generosità e unità. E non esistono soluzioni intermedie”. Non andò così. Prevalsero posizioni diverse e qualche personalismo.
In un anno tutti sono cresciuti. A Firenze, a Monza, a Udine. Ognuno ha – oggi – un ruolo politico di primo piano nazionale. E una conseguente responsabilità. Sarà ben arrivato il momento di prendere in mano, insieme, il proprio destino. Che è poi il destino del Pd e dell’Italia: con coraggio, generosità e unità. Il tempo verrà, molto presto.

martedì 23 aprile 2013

Lessico Famigliare 2.4 - Il gran finale


"La persona migliore per guidare un esecutivo del presidente oggi si chiama sicuramente Matteo Renzi" - Piero Fassino

"Può risultare più accettabile anche per tutti noi dare un voto positivo a un governo ringiovanito che dia l'idea di una nuova politica e di un nuovo stile che avanza. La questione di Renzi non è banale" - Laura Puppato

"Per Palazzo Chigi si può pensare a una personalità di garanzia o a un leader politico: E Renzi rientra senz’altro in questo ruolo" - Andrea Orlando

"In direzione proporrò il nome di Renzi per la presidenza del Consiglio: ha ragione quando dice che non dobbiamo attendere, ma essere in grado di proporre una linea politica al paese" - Matteo (Orfini)

"Renzi a Palazzo Chigi? Sarebbe un bell'accadimento" - Alessandra Moretti 


Poi in Friuli ha vinto Debora Serracchiani. E quello che doveva smacchiare il giaguaro si dimentica di ricordarlo... sarà che, abituati a "non perdere", quelli che vincono devono sembrarci estranei.

sabato 20 aprile 2013

Il Puparo

Dicono che non si può votare per Stefano Rodotà, perché lo ha proposto Beppe Grillo.
Sostengono che non si possa, perché Grillo è un tribuno, un populista. Uno che ieri inneggiava alle dimissioni di Bersani da un palco di Udine.
Spiegano che non possiamo cedere in questo modo all'antipolitica.

Non sono d'accordo, per due ragioni.

La prima: Grillo ha proposto Rodotà, non il Gabibbo. Rodotà è un uomo di sinistra, una persona perbene, un uomo equilibrato. Non fosse equilibrato, non lo avrebbero scelto come Presidente del Partito Democratico della Sinistra, o come primo Garante per la privacy. Anche se proposto dai populisti, Rodotà resta Rodotà, coi suoi difetti e i suoi pregi. Non diventa mica una Lombardi o un Crimi per il fatto di piacere al M5S...

La seconda: il Pd ha proposto a Grillo un'alleanza per il Governo dal giorno successivo alle elezioni. Non possiamo dimenticarci per 50 giorni che il M5S è un pericolo per la democrazia e ricordarcene oggi perché Grillo osa essere felice delle dimissioni di Bersani. Cosa dovrebbe fare Grillo, dispiacersi? Semmai, l'elezione di Rodotà toglierebbe ogni residuo alibi ai grillini e imporrebbe loro quel senso di responsabilità che da settimane rimproveriamo non abbiano.

Dicono che nel segreto dell'urna i voti Pd a Rodotà verrebbero a mancare. Ma questo può succedere con qualunque candidato, a questo punto, compresa la candidata alternativa. Anna Maria Cancellieri è persona degnissima e di altissimo livello. Ma eleggerla Presidente sarebbe l'ennesima sconfitta della politica: 1.000 rappresentanti del Popolo che si affidano a un Prefetto, perché non sanno scegliere uno di loro. A voler combattere, sul serio, il populismo e l'antipolitica questa soluzione appare enormemente meno efficace della prima. O no?

Infine, ma non per ultimo: se a qualcuno venisse in mente di eleggere il Puparo coi baffi, sappia che dovrà vedersela con parecchia gente. Perché da qui - e da quel poco che resta del Pd - non se ne va nessuno. Ma ho l'impressione che la misura sia colma.

venerdì 19 aprile 2013

Che poi magari non lo eleggono. Ma almeno io l'ho detto

Quando avevo vent'anni, c’era Romano Prodi. C’era l’Ulivo. C’erano i parlamentari scelti dal Popolo. C’era un centrosinistra capace di vincere le elezioni e di governare. Capace di disegnare, nella prospettiva di un’Europa più unita e più forte, un futuro per l’Italia.
Due anni dopo, non c’era più Prodi. Non c’era più l’Ulivo. Non c’era più un centrosinistra di governo. Da lì a qualche anno non ci sarebbero più stati i parlamentari scelti dal Popolo. E al posto della prospettiva europea, il chiacchiericcio no-euro di Berlusconi resuscitato.
C’erano due linee, quando avevo vent'anni, che hanno continuato a esserci: chi voleva costruire il partito dei riformisti italiani, un partito fatto di cittadini, il partito dell’alternanza democratica col centro-destra. Volevamo il Partito Democratico come asse di una storia nuova per l’Italia, che ci rendesse un po’ più simili all’Europa e un po’ meno ai noi stessi negli anni ’70.
Dall’altro lato, c’erano quelli che tra centro e sinistra mettevano il trattino, che pensavano all’Ulivo e hanno poi pensato al Partito Democratico come all’alleanza tra ex comunisti ed ex democristiani: una riedizione del compromesso storico, fondata sulla divisione dei compiti tra la “sinistra” e il “centro”.
Ora la questione non è decidere se Prodi cadde allora perché si sfilarono i comunisti o per un accordo di palazzo: il complotto. Poco importa sapere se la nascita del Governo D’Alema sia stata preparata prima che Prodi inciampasse nella sfiducia del Parlamento. Ciò che conta è la diversa impostazione politica, le due linee. Su di esse – sulla loro efficacia e utilità, per il centrosinistra e per l’Italia – un giudizio ha iniziato a darlo la storia. Un giudizio lo hanno dato i risultati elettorali, compreso l’ultimo.
Un giudizio, infine, lo hanno dato i “nostri” che si sono ribellati alla candidatura di Franco Marini, nata e proposta nella più pura logica della divisione dei compiti: un cattolico al Quirinale, uno “di sinistra” a Palazzo Chigi.
Dunque, se il Partito Democratico si riunirà intorno alla candidatura di Romano Prodi – e non a quella di Massimo D’Alema, di Anna Finocchiaro o di qualche Papa straniero... – sarà una vittoria di chi crede nello spirito originale del PD e rimpiange gli errori commessi in questi anni. Potrei sbagliarmi, ma da quello che leggo in giro, direi che non siamo solo noi “renziani”. Come credo non siamo solo noi a pensare che sia meglio separare – finalmente e davvero! – la partita del Quirinale da quella di Palazzo Chigi.
Se non ci saranno sorprese, da qui potremo ripartire, la prossima settimana e in vista di vicinissime elezioni: con una nuova leadership, nuovi programmi, un nuovo atteggiamento.
Per vincere e governare. Per fare quello che deve fare il Partito Democratico. "E prendiamola tra le braccia, questa vita danzante..."

giovedì 18 aprile 2013

Ora

Ora ci diranno che poteva andare peggio.
Ora ci spiegheranno che hanno capito, che il nome di Franco Marini non poteva passare.
Ora ci diranno che servono senso di responsabilità ed equilibrio.
Ora ci diranno che il Pd deve trovare un nome per ricompattarsi.
Ora ci diranno che chi non capisce gioca allo sfascio.
Ora tireranno fuori altri nomi uguali a quello di Marini.
Ora aspetteranno la quarta votazione per provarci con Amato.
Ora aspetteranno la quarta votazione per provarci con D’Alema.
Ora sembra che non abbiano capito nulla.
Ora, invece, è chiaro che hanno capito tutto e che lo fanno proprio apposta.
Ora un nome c’è, che può essere eletto alla seconda votazione. 
Ora il nome è Stefano Rodotà, come ieri era Stefano Rodotà.
Qualcuno stamattina ha votato per il Conte Lello Mascetti. Ora ci diranno che tutto va bene e che per cena avremo anche il “rinforzino”. E noi qui ad aspettare il figlio occhialuto di Noiret, per sentirci dire come stanno davvero le cose: la casa è un basso, freddo e umido, la moglie è secca come un’acciuga e si muore di fame. Così è ridotta la Ditta, come la casa del Conte Mascetti.
Ora, bisognerebbe dare le dimissioni, farsi da parte. Invece, ci risponderanno con l’ennesima supercazzola.

mercoledì 17 aprile 2013

D'Alemato, ovvero: "Chi gioca in prima base?"

A volte mi faccio paura da solo… O sono loro che mi fanno tanta paura. Il 12 marzo, commentando le voci che circolavano riguardo al nuovo Presidente della Repubblica, scrissi questa cosa:

“Grillo ha vinto le elezioni, cosa possiamo fare?
Potremmo eleggere Giuliano Amato al Quirinale
Ma hai capito? Ho detto che Grillo ha vinto le elezioni...
Ho capito! Allora potremmo eleggere Massimo D'Alema al Quirinale
Ok ma, chi gioca in prima base? Chi....”

In questo mese, insieme a molte parole e nessun fatto per l’Italia, sono stati “lanciati” e bruciati almeno venti nomi. Oggi, alla vigilia del primo voto, siamo tornati all’inizio, come nel più entusiasmante gioco dell’oca. Il problema – oggi come un mese fa – è che ci sono state le elezioni.
E che gli Italiani – non Grillo che è irresponsabile, Renzi che è maleducato, noi che non capiamo niente… – ci hanno detto in modo fin troppo chiaro che una storia è finita e che bisogna voltare pagina. Eleggere Presidente della Repubblica il segretario nazionale della FGCI di quando io nascevo o il volto presentabile del craxismo (non ho mancato di rispetto a nessuno, ok?) non corrisponde a questa richiesta. Da qualunque parte la si guardi, a meno di non guardarci l’ombelico, non le corrisponde.
Ora, per capirci, non si può eleggere una brava e coraggiosa giornalista d’inchiesta perché l’hanno scelta i militanti del M5S via internet. Che, in base a questo principio, avrebbero potuto scegliere anche il Gabibbo o Capitan Ventosa… Ma il problema è che tra i nomi proposti ce ne sono almeno due che sarebbe difficile bocciare, sia per il Pd che per il Pdl. Leggi alla voce “ampia intesa per il Quirinale”: Emma Bonino e Stefano Rodotà sono proposte serie, intelligenti, capaci di sparigliare la partita e di dire all’Italia una cosa semplice e chiara: “Abbiamo capito”. Io preferisco la prima, ma capisco che oggi sarebbe più facile eleggere il secondo. E allora, votiamolo!
Se invece ci sarà l’accordo su Amato o su D’Alema, vorrà dire che non abbiamo capito. Magari poi si farà pure il Governo, che sarà presieduto da Bersani e non avrà l’appoggio esplicito di Berlusconi. Il minimo sindacale per poterlo definire “del cambiamento”. Non sarà quello che si aspettano tutti gli Italiani, anche quelli che hanno votato per noi. Ma forse è davvero troppo semplice perché lo si possa capire.

lunedì 15 aprile 2013

Lessico famigliare 2.3 - Miserabilia


Rispettoso  “Nel Pd tutti hanno diritto di parola ma a nessuno può essere consentito il diritto all'insulto. In nessun modo si può accettare che venga meno il rispetto dovuto alle persone” – Nico Stumpo (organizzatore)
Lagrimosa  “Le dichiarazioni di Matteo Renzi mi fanno grande tristezza” – Chiara Geloni (direttrice)
Delirante “Renzi continua a fare prevalere le sue pur legittime aspirazioni personali rispetto agli interessi del Paese e mi sembra irresponsabile. Ormai è evidente che i sondaggi creino deliri di onnipotenza” – Stefano Fassina (giovane turco)
Spietato  “L'attacco personale di Renzi a Franco Marini e' sgradevole, volgare, vergognoso e oltrepassa tutti i limiti. Per poter raggiungere i propri disegni di potere e ispirato da uno spietato carrierismo, il sindaco di Firenze attacca tutti coloro che possono ostacolare i propri obiettivi. Una tristezza e una pena incalcolabili. Un atteggiamento vergognoso che punta a far saltare il Pd” – Giorgio Merlo (mariniano)
Giochi di abilità “Renzi deve smetterla di fare il gioco delle tre carte” – Beppe Fioroni

Solidale “Esprimo la mia solidarietà ad Anna Finocchiaro perché le parole di Renzi hanno davvero passato il segno” – Roberta Agostini (parlamentare)
Villano “Irriconoscente verso il suo partito e davvero con un tocco di villania sgraziata” – Barbara Pollastrini (parlamentare)
Definitivo “Trovo che l'attacco di cui mi ha gratificato Matteo Renzi sia davvero miserabile, per i toni e per i contenuti. E trovo inaccettabile e ignobile che venga da un esponente del mio stesso partito. Sono dell'opinione che chi si comporta in questo modo potrà anche vincere le elezioni, ma non ha le qualità umane indispensabili per essere un vero dirigente politico e un uomo di Stato” – Anna Finocchiaro (statista)
Fa piacere vedere tutti d’accordo con il capo famiglia… “arrogante, indecente, qualunquista”

domenica 14 aprile 2013

Fabrizio Barca, secondo me

Ho letto il documento di Fabrizio Barca, sul “Partito nuovo”. Provo a fare alcune riflessioni, premettendo che non sono un intellettuale. Quindi, parlerò di pratica, non di teoria.

Anche per questo, rilevo un solo aspetto di natura ideologica relativo al rapporto tra Capitale e Lavoro. Barca ribadisce e rivendica come concetti fondanti dell’identità condivisa di un partito di sinistra il conflitto di classe e la rappresentanza del Lavoro. Scrive: “La separazione fra capitale (materiale e immateriale) e lavoro è caratteristica costitutiva del capitalismo: il capitale è controllato da “imprenditori” che traggono dal controllo l’incentivo stesso a innovare; il lavoro è posto in condizione di svantaggio contrattuale da tale controllo”. Punto.

Sul piano dell’organizzazione, Barca pone una questione dirimente: la separazione del Partito dallo Stato e il Partito come luogo di elaborazione delle scelte politiche e amministrative. Con un ruolo ridimensionato per gli eletti dal Popolo. “Nuovo”, definisce il Partito. Partito nuovo” fu quello di Togliatti nell’immediato dopoguerra e “nuovo” fu anche il PCI nel 1989, due anni prima di sciogliersi.
Questo “partito nuovo” dovrebbe rompere ogni legame con lo Stato e trasformarsi in una palestra di “mobilitazione cognitiva”: cioè un percorso
positivo dal basso verso l’alto e viceversa, attraverso il quale le molteplici soluzioni ai problemi sociali si traducono in scelte condivise di buon governo.
La proposta – al netto di qualche accento nostalgico verso sempre troppo mitizzate forme-partito passate – contiene un certo fascino. E potrebbe avere effetti dirompenti, qualora attuata. Chi di noi conosce anche superficialmente il Pd sa che l’attuale organizzazione soffre di tutti i difetti che Barca individua, è afflitta da un rapporto "simbiotico" con lo Stato e le amministrazioni locali, produce selezione avversa del personale politico e di governo.

La proposta di trasformazione di questo Pd verso una “palestra della mobilitazione cognitiva” si presta a essere interpretata e giudicata in due modi:
1. Può essere rivoluzionaria, se imposta con una battaglia in campo aperto contro l’attuale assetto del Pd, contro interessi forti e consolidati che resistono e resisteranno.
2. Può – per contro – ridursi a un esercizio di stile, che delinea un’idea astratta di partito, per come dovrebbe essere, per come vorremmo che fosse. Senza incidere concretamente nella realtà.
Il problema, sul piano pratico, è che Barca individua due percorsi possibili: una non meglio specificata “doccia fredda”, che cambi qui e subito il Pd. Oppure un
"cambiamento graduale che muova dalle 100 “unità territoriali” dove esistono leader forti, capaci di costruire prototipi di cambiamento, o dove il cambiamento e già in moto”. Tuttavia, poiché la doccia fredda dovrebbe essere scelta – e votata – all’interno di questo Pd, le sue probabilità di successo sembrano assai limitate. Di contro, una svolta graduale rischia di non arrivare mai al risultato, senza una soluzione in qualche modo traumatica, che rimuova le interessate resistenze che ad ogni cambiamento si opporranno.

Ciò che forse più interessa il dibattito è la compatibilità/complementarietà dell’approccio di Barca rispetto a quello di Renzi. Sono piuttosto convinto che tale compatibilità non esista. Di più, la proposta di Barca mi pare una possibile/probabile alternativa alla battaglia di Matteo: centralità del partito, rappresentanza del lavoro come suo “core business”, prevalenza degli organismi di partito rispetto agli “eletti”, sino alla sostanziale negazione (pur non esplicitata, ma automatica nel delineato nuovo ruolo assegnato al partito) del metodo delle primarie libere e aperte come strumento di selezione dei gruppi dirigenti, di coinvolgimento dei cittadini, di scelta tra opzioni politiche differenti.
Con il corollario di un percorso graduale che rischia di trasformare il tutto in un make-up di modernità a un’organizzazione che manterrà tutti i suoi difetti e ritardi.

Negli ultimi due giorni ho condiviso queste mie riflessioni con alcuni amici e compagni. Ne è uscito un dibattito interessante, che provo a sintetizzare lungo due linee di ragionamento: quella di chi mi fa notare il fascino indiscutibile della proposta di Barca per un “uomo di sinistra”, specie alla luce dell’attuale stato delle cose nel Pd… e quella di chi ribadisce la complementarietà delle proposte di Renzi e Barca nel nostro scenario politico.

Sulla prima questione, temo di dover essere d’accordo: un “partito nuovo”, che promette di contenere tutto il buono del partito più vecchio (il PCI) senza i difetti del Pd, può piacere - e molto - ai militanti. Su questo dirò solo che ci sono due modi di intendere la partecipazione alla vita democratica: abbiamo fatto il Pd perché ritenevamo necessaria una forma-partito più aperta al contributo di chi è un “semplice elettore” e intende restarlo. Questa scelta partiva da un’analisi della società e delle forme di partecipazione democratica possibili nel mondo di oggi. L’impostazione iniziale è stata accantonata da chi ha tentato di trasformare il Pd in un “partito forte”, organizzato e radicato sul territorio tramite sezioni, tessere, direttivi e federazioni. Come lo erano i partiti di una volta, uno su tutti. Il risultato non è stato granchè, in termini organizzativi e anche elettorali. Barca spiega che il difetto non sta nella linea, ma nel modo in cui è stata perseguita: va bene il “partito forte”, ma lo abbiamo fatto male. Io continuo a pensarla in un altro modo.

Sulla seconda, vi riporto integralmente la lucidissima critica dell’amico Renzo Gorini: “Il documento di Barca non espone una “teoria del governo”, nel senso che non indica strategie programmatiche di governo. Anzi teorizza che le politiche devono emergere dal confronto-conflitto fra le componenti aggregate dal partito, siano iscritti, simpatizzanti o “altri”. Con un singolare e ripetuto riferimento ad Adam Smith, non tanto a quello della “Ricchezza delle nazioni” ma piuttosto a quello della “Teoria dei sentimenti morali”. L’esatto opposto di Renzi che non espone mai una “teoria del partito”. E’ questa posizione di Barca che mi ha portato a pensare che i due possano essere complementari, dato che entrambi sono imbevuti di una logica pragmatica e soprattutto “rivoluzionaria”(lo ammetti anche tu) rispetto al partito attuale. Tu li vedi invece inevitabilmente conflittuali. Può darsi. Ma se è così sarà meglio che Matteo si dia una svegliata perchè di una cosa resto convinto: senza una “teoria del partito” puoi vincere la premiership del paese, grazie alle forze che gruppi come il nostro possono aggregare in occasione delle primarie, ma poi?”

Le due critiche spiegano anche perché il progetto originale del Pd sia stato rapidamente accantonato sull’onda di un entusiasmato ritorno al partito "forte e radicato". Poiché però quel partito ha mostrato tutti i suoi limiti, si arriva dunque al nocciolo della questione. Nocciolo - pragmaticamente - politico: il “partito nuovo” di Barca verrà imposto con una rottura rivoluzionaria, oppure si tenterà l’impossibile strada di trasformare questo Pd nel “partito nuovo”, gradualmente? Considerato che nel mondo d’oggi anche il tempo ha una sua importanza, il primo caso può aprire una prospettiva complementare tra la “teoria e prassi del partito” di Barca e la “teoria e prassi del governo” di Renzi. Sempre che si possa e si voglia sorvolare su un dettaglio relativo ai contenuti: è compatibile, prima ancora di poter essere complementare, con l'impostazione programmatica di Matteo Renzi un partito "di sinistra", radicato nell'idea di una insopprimibile lotta "di classe" tra Capitale e Lavoro?
Nel caso di una soluzione progressiva, Barca potrà essere – al massimo – l’antagonista di Renzi. Al quale potranno rivolgersi, per disperazione se non per convinzione, le truppe disperse del “partito vecchio” che oggi resistono come soldati giapponesi sulle ultime isole del Pacifico.

Quanto a Renzi, ha ragione Gorini: l'ascesa di una nuova classe dirigente non è possibile, oggi, senza far leva sui tanti cittadini che stanno fuori dal partito, ma vogliono incidere sulle sue scelte attraverso le primarie. Ma per gestire, anche nel governo, la "vittoria" servirà una "teoria e prassi del partito" - possibilmente alternativa a quella qui analizzata e più aderente allo spirito iniziale del Partito Democratico... - capace di garantire in forme nuove ed efficaci il rapporto con una società complessa.

martedì 9 aprile 2013

Chiacchiere e distintivo

Sostiene oggi Pier Luigi Bersani che, fino a quando non sarà eletto il nuovo Presidente della Repubblica, si faranno solo chiacchiere. Si continuerà, in sostanza, a chiacchierare come negli ultimi quarantaquattro giorni.
Fanno chiacchiere quelli che propongono il governissimo e fanno chiacchiere quelli che vi si oppongono. Fa chiacchiere chi chiede di insediare le commissioni e far lavorare il Parlamento. Fa chiacchiere chi ricorda le difficoltà del Paese e invoca un Governo che le affronti. Fa chiacchiere Giorgio Napolitano, che richiama il 1976 e una “larga intesa” tra forze politiche che – a non voler essere ridicoli nel raccontarci la Storia – avevano qualche distanza ideologica maggiore rispetto a Pd e PdL.
Fa chiacchiere lo stesso Bersani, quando gira in burletta l’incontro con Berlusconi (“ti conosco, mascherina”) e quando ricorda che non lo vedrà ad Arcore: tiè, Renzi! Che poi sta cosa di Arcore l’ha già detta tre volte in dieci giorni. Abbiamo capito. Ma si fa così, per chiacchierare…
La notizia del giorno è che le chiacchiere – quelle che proseguono da quarantaquattro giorni, mentre l’Italia sta tanto male da indurci a convocare una manifestazione “contro la povertà” – continueranno sin dopo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica: le votazioni inizieranno il 18 Aprile, dureranno qualche giorno, poi ci sarà il ponte del 25 Aprile, quindi il 1° Maggio.
Dunque, la notizia del giorno è che per un altro mese faremo solo chiacchiere. Poi potremo ricominciare a discutere di cose serie: di incarico a Bersani e di “Governo del cambiamento”. Il suo distintivo. 

Ma il Capitano non pensa a sé, pensa al Paese e, in subordine, alla Ditta. E “il Capitano non tiene mai paura: dritto sul cassero fuma la pipa, in questa alba fresca e scura…”

lunedì 8 aprile 2013

Margaret, le Falklands e la Democrazia

Qui si fa fatica persino a parlar bene di Tony Blair, figuriamoci mettersi a ricordare Margaret Thatcher nel giorno della sua morte. Ma non sarà per prudenza o voglia di disconoscerne i meriti nella modernizzazione del Regno Unito – tra l’altro le miniere, alla fine, han chiuso anche nel resto d’Europa… – che ricorderò qui quello che molti considerano, a torto, un dettaglio nella sua lunga esperienza di governo.
Parlerò della guerra per le Falklands. Perché quella vicenda dimostra come una grande democrazia possa fare scelte coraggiose e difficili, tenendo fermo il timone e dritta la schiena di fronte alle provocazioni e alle prevaricazioni, anche quando abilmente nascoste dietro a comodi paraventi: la lotta contro il colonialismo, l’autodeterminazione, un qualche Davide contro il suo Golia.
La guerra fu scatenata da un regime di criminali. Delinquenti senza dignità, abituati a solcare l’oceano che separa l’Argentina da quelle isole per gettare vivi in mare i loro oppositori politici. Quei personaggi fecero l’estremo tentativo di salvare il proprio potere, ormai in crisi, con il più classico e odioso diversivo militare-nazionalista.
Combattere per le Falklands fu una scelta coraggiosa, impopolare dinnanzi a spinte pauperiste e terzomondiste, difficile da far accettare a un popolo benestante e moderno all’inizio degli anni ’80: Margaret Thatcher non sarà stata Winston Churchill, ma neppure le Falklands sono Coventry, o Londra.
La ferma decisione di Margaret Thatcher fece bene a lei e al Regno Unito. Ma ne fece forse di più all’Argentina, accelerando il processo di implosione del regime e il passaggio alla democrazia. Io sono uno di quelli, molti dalle mie parti, che amano l’Argentina come una seconda Patria. Anche quando, come nel mio caso, purtroppo non vi hanno mai messo piede.
Ma, a dispetto del nuovo patriottismo descamisado e di quello della sinistra à la Maradona con la sua Mano de Dios, nella guerra delle Falklands aveva ragione la Thatcher e torto gli Argentini. E il fatto che tale ragione non fosse allora così evidente ed universalmente condivisa non fa che contribuire a rendere grande il ricordo di una donna che si è dimostrata forte nel difendere, in quella difficile situazione, la democrazia e i suoi principi.

domenica 7 aprile 2013

Quaranta dì

La verità è che da quaranta giorni stiamo discutendo della stessa cosa, raccontandoci di quando in quando che sia cambiato qualcosa. La verità è che da quaranta giorni non è cambiato un bel niente. E noi stiamo qui a discutere sul nulla.
Il giorno dopo le elezioni, Bersani ha proposto a Grillo un Governo del cambiamento. Grillo ha risposto di no. Da quaranta giorni, ripete di no.
Il giorno dopo il giorno dopo le elezioni, Bersani avrebbe dovuto farsi una ragione del rifiuto grillino. E scegliere un'altra strada.
Dopo quaranta giorni, forse, stiamo discutendo di questo. Meglio tardi che mai? Forse. Di sicuro, è peggio tardi che prima...
Ora, le possibilità sono tre, come lo erano quaranta giorni fa. Ognuna con qualche variabile non insignificante. Ognuna segnata da un "non detto" che vi dirò alla fine.
La prima opzione è un accordo politico pieno e definito tra Pd e PdL, con Bersani premier e ministri di entrambi gli schieramenti. Una grande coalizione che in molti paesi europei sarebbe ovvia, ma che in Italia rischia di trasformarsi in una tragedia politica per il Pd. Il quale, in nome della scalata a Palazzo Chigi, rischia di investire tutta la propria immagine e la propria storia in un'avventura dagli esiti incerti e di breve durata.
La seconda possibilità è quella di un Governo Pd-PdL di breve durata, per fare alcune cose importanti e urgenti, evitando un eccessivo coinvolgimento dei vertici democratici. E preparando, nel frattempo, le condizioni per arrivare più forti alle prossime elezioni politiche. Vale a dire: cambio di leadership, di atteggiamento, di programmi. Perché questa leadership, questo atteggiamento e questo programma sono stati sconfitti.
Terza opzione: andare subito a nuove elezioni. Col rischio di passare dalla padella alla brace, in una situazione ancor meno chiara e con un Pd in minoranza anche alla Camera. Ma con l'opportunità di accelerare il cambio di leadership, atteggiamento e programmi di cui alla seconda opzione. E magari, di vincere.
Ma veniamo al "non detto". Quello che ha determinato questa inconcludente quaresima laica e complica un quadro che sarebbe invece tanto chiaro.
Quello che non si dice è che, in un modo o nell'altro, il nome di Pier Luigi Bersani deve restare in campo. Anche e forse soprattutto, per evitare l'ovvia alternativa strategica. Che si chiama Matteo Renzi.
Il Governo Bersani è finito il giorno delle elezioni. Poi è finito il giorno successivo, quando Grillo ha detto di no. Poi è finito quando Napolitano ha chiesto - giustamente - che ci fosse una maggioranza certa. Poi è finito quando l'incarico esplorativo è stato "congelato". Poi è finito quando l'incarico esplorativo è stato "assorbito". Poi è finito l'altro ieri, quando Grillo ha riunito i suoi e ha ripetuto che non darà la fiducia.
Eppure, contro ogni evidenza, il Governo del cambiamento è ancora in campo. E il problema sarebbe Renzi che non lo vuole... Si aspetta l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica e si prova - oggi - a tastare il polso della base in vista di una possibile "svolta": Governo Bersani insieme al PdL. Che poi era Renzi a volere l'inciucio...
La verità è che, per via di un Governo Bersani o di precipitose elezioni, si vorrebbe mantenere in piedi la leadership, l'atteggiamento e il programma che hanno perso le elezioni e che riperderanno le elezioni.
La verità è che davvero Matteo Renzi è il problema. Non certo perché sia "contrario al Governo Bersani", ma perché rappresenta l'alternativa, possibile e vincente. Alternativa alla linea da lemmings che vorrebbe imporci chi pensa vada bene perdere, riperdere e perdere ancora, purché non venga meno la loro presa sul partito.

venerdì 5 aprile 2013

Sul doppio binario: è l’Italia Viva che va veloce... e Juliet, dei Visitors


Novara, 5 aprile, riunione dei Comitati Renzi di Piemonte e Lombardia: un momento bello e importante per tutti noi. Soprattutto perché l’incontro ci ha permesso di sciogliere un nodo che, in un momento di totale incertezza come questo, rischiava di generare inutili tensioni.
Abbiamo constatato l’efficacia del “doppio binario”: un lavoro separato, ma complementare, all’interno e fuori dal Partito Democratico. Non era scontato trovarci, alla fine, tutti d’accordo su questo. I Renziani con tessera PD spingono per l’ingresso di nuove forze di cambiamento all’interno del partito e quindi cercano di portare “a casa” nuovi iscritti. Invece chi si è avvicinato alla politica grazie a Matteo Renzi spesso non considera necessario né opportuno imbrigliare la propria voglia di partecipazione dentro la vecchia forma partito.
Ora. Entrambe le posizioni sono interessanti. Molto bene.
La mia esperienza di iscritto e militante che oggi frequenta i Renziani (e basta) di Adesso!Milano – la mia “doppia vita”, come l’ha definita sorridendo Giorgio Gori – mi aiuta a capire meglio le ragioni di entrambi.
Chi come me è nel PD, deve restarci a dare battaglia. Però, l’idea di dover superare il partito tradizionale, dando spazio a chi ha voglia di fare politica senza una tessera in tasca, è il punto da cui siamo partiti quando abbiamo costruito il Partito Democratico. Le primarie – anche se qualcuno ha preferito dimenticarlo, portandoci al disastro di oggi – sono il mito fondativo del Pd. E lo sono perché avevamo capito che serviva cambiare la politica, le sue forme e i suoi metodi. Se quell’impostazione è stata tradita, portandoci a nuove e più gravi sconfitte, dobbiamo rimetterla al centro del nostro impegno. Perché chi ha voglia di partecipare non trovi mai porte chiuse o peggio, come è avvenuto nei mesi scorsi, sbattute in faccia.
Dunque, magari la mia doppia esperienza mi aiuterà a comprendere due realtà che dobbiamo fare ogni sforzo per tenere insieme. Mi sento un po’ Juliet dei Visitors, figlia di un’umana e di un lucertolone alieno, caricata in quanto mezzosangue di qualche eccessiva responsabilità. Solo che non ho ancora ben capito quali siano i Visitors.

giovedì 4 aprile 2013

Lessico Famigliare 2.2, un grande ritorno

“Non si può negare che al momento la proposta politica di Renzi coincida perfettamente con quella di Berlusconi” – Chiara Geloni, Direttore di Youdem
“Renzi semplicemente propone la stessa ricetta di Berlusconi” – Stefano Di Traglia, responsabile comunicazione del Pd
“Renzi pensa di perdere sua occasione e vuole matrimonio con Cav? Si accomodi” – Roberto Seghetti
“L'alternativa tra governissimo col Pdl o voto è la proposta che Berlusconi ossessivamente lancia dal primo giorno. Se Renzi vuole governare con il Cavaliere si accomodi” – Davide Zoggia
C’è almeno da dire che l’ufficio comunicazione&propaganda funziona a meraviglia
Nel mentre…
“#Renzi è la vecchia politica che finge di essere nuova ma intanto punta all'inciucio” – Beppe Grillo

lunedì 1 aprile 2013

Col Presidente, ma davvero

Sono bastate 24 ore per arricchire il solenne "Tutti con Giorgio" che ha riempito i twitter e le agenzie di sabato con una tale sequela di distinguo, precisazioni e prese di distanza da trasformare quel sostegno "pieno", "incondizionato", "fiducioso" alle scelte del Capo dello Stato in un retorico e fastidioso esercizio di ipocrisia.
"Napolitano ha detto che si sarebbe dimesso", "Napolitano non ha tenuto conto della maggioranza assoluta del Pd alla Camera", "Napolitano ha nominato una commissione di saggi anziani e tutti maschi". E via cianciando, sino alle allusioni su abusi di potere e vulnus costituzionali...
Il Presidente indica la Luna e tutti gli guardano il dito. Lo osservano, lo analizzano in controluce, lo sezionano. Della Luna non si parla, perché non se ne può parlare. Chi lo fa è un inciucista.
Il Presidente ha registrato una situazione tragica per la Repubblica: l'incapacità delle forze politiche di mettersi d'accordo per formare un Governo. Perché Grillo vuole lo sfascio, perché Berlusconi vuole contare, perché Bersani e il Pd si sono incaponiti in una battaglia persa in partenza per un "Governo del cambiamento" che non ha i numeri e non potrà nascere.
Da due mesi meniamo il can per l'aia con questa storia "senza piano B". Da un mese, il Presidente ci spiega che senza numeri il Governo non si fa. Abbiamo parlato con tutti, abbiamo trascinato le consultazioni del premier preincaricato per una settimana. Non ne abbiamo cavato un ragno dal buco.
Semplicemente, perché Bersani pretendeva dagli altri - e temo ancora pretenda... - un regalo, chiamandolo "dovere di responsabilità". Chi non la pensa come noi dovrebbe lasciar nascere il Governo: "Non opporsi", magari mentre noi lo dipingiamo come un cancro della democrazia o ci prepariamo a votare per il suo arresto in Parlamento...
Abbiamo condotto la discussione pretendendo che l'interesse del Paese coincidesse - ipso facto - coi nostri obiettivi di parte, senza nulla concedere di fronte a un risultato elettorale che solo il premio di coalizione e una buona dose di fortuna hanno trasformato in una maggioranza alla Camera.
Abbiamo portato avanti una politica dei due forni chiusi, rivendicando il nostro diritto a ripetere "mai col Pdl", ma pretendendo che Grillo - per chissà quale ragione - rinunciasse al suo "mai col Pdmenoelle".
In questa situazione, della quale portiamo la responsabilità,non meno del M5S e più di Berlusconi, il Presidente ha fatto quello che poteva. Non poteva mandare in Parlamento un Governo del Presidente, che avrebbe rischiato di non avere la fiducia. Non ha voluto dimettersi, ha preso tempo, tentando un rilancio della speranza. Ora le forze parlamentari hanno due settimane di tempo per trovare e proporre a Napolitano un Governo per l'Italia.
Da quel che si legge, penso non lo faranno. Queste due settimane andranno sprecate e se ne discuterà col prossimo inquilino del Quirinale. Al quale il Pd riproporrà il "Governo del cambiamento", ricordando che Bersani è sempre in campo... Grillo dirà di no, noi diremo di no a Berlusconi e il gioco dell'oca sarà finito.
Si vota a Luglio, con questa legge elettorale. E voi vorreste farmi discutere di Violante, di Quagliariello e degli altri saggi quirinalizi? Non scherziamo, dai.

in viaggio con Manubrio