lunedì 24 ottobre 2011

E se casca?

In due giorni la situazione sembra davvero precipitare. Finalmente, dirà qualcuno. E come dargli torto. Certo è che la piega presa dagli eventi nelle ultime 24 ore lascia pensare ad una fine, rapida ma tutt’altro che indolore, del governo. C’è qualcosa di surreale e al tempo stesso fastidioso in questo che, forse, sarà il vero epilogo del berlusconismo come esperienza politica.
Surreale, ma anche fastidioso, è quanto avvenuto ieri, con i leader di due grandi paesi europei a farsi beffe del premier italiano, insieme a una nutrita delegazione di giornalisti internazionali. Anche questo andrà sul conto di Berlusconi e del livello tragicamente basso cui ha portato l’immagine del Paese, insieme alla sua personale. Comunque, se Berlusconi non è De Gasperi, ieri non abbiamo visto – in quella conferenza stampa – né un Adenauer né un De Gaulle. Se il livello è questo qui, meglio abbassare il sipario, per tutti.
Ancora più surreale appare il dibattito che si è subito aperto in Italia e che forse porterà al crollo della maggioranza di governo. La Lega di Roma, che ha ceduto su tutto e ha digerito qualunque cosa. In nome di un’alleanza indissolubile con Berlusconi, sembra pronta a staccare la spina sulle “pensioni”. Che non si devono toccare, perché abbiamo già dato e la Lega difende i lavoratori.
Ci sarebbe da sorridere, non fosse che la situazione è – davvero – tragica. Non so se avanzino solo due giorni per salvare l’Italia. O se abbiamo ancora qualche settimana. La verità, però, è che i nodi sono venuti tutti al pettine e che sarebbe criminale – autenticamente criminale – ogni astuzia pre-elettorale, ogni tentativo di sfruttare la situazione per guadagnare facile consenso. Come sta facendo la Lega.
Piuttosto, ora che forse questi cascano sul serio, è davvero il momento di capire se siamo capaci noi di assumerci la responsabilità che serve al bene del Paese. E se saremo capaci noi di evitare i tatticismi e le furberie di chi pensa che il primo e principale problema siano le elezioni di primavera, piuttosto che il baratro su cui oscilla il futuro dell’Italia.
E insomma, Berlusconi spinto dall’incombere della tragedia si è risolto a toccare l’intoccabile, a proporre qualcosa di improponibile per la sua maggioranza. Rischia tutto perché non può fare diversamente. Ci prova. Tutti ci auguriamo che esca in fretta sconfitto da questa vicenda. E che se ne vada.
Però resterà intatto il problema e toccherà a qualcun altro affrontarlo. La riforma del sistema pensionistico, con l’innalzamento da subito dell’età pensionabile, è una scelta che non potrà essere evitata. Non da chi voglia davvero salvare l’Italia, a costo di rimetterci il consenso di chi sta facendo le acrobazie per andare a riposo prima – molto prima – dei 67 anni.
Io penso che un partito riformista debba avere il coraggio e l’onestà intellettuale di farsi carico di questa sfida. Lasciando da parte la storia dei diritti acquisiti. Che acquisiti non sono nemmeno un po’, se li deve pagare qualcuno che di quei diritti non conoscerà nemmeno un’ombra sfocata. Il resto sono tatticismi, buoni per restare a galla e guadagnarsi un altro giro sulla giostra. Ma il biglietto lo pagheranno, stavolta carissimo, i soliti.
Che non sono – diciamolo una volta chiaramente – “i lavoratori, i pensionati, le donne, i giovani…”. Ma più che altro, “i giovani”. Dei quali, dopo una settimana di ramanzine e di fastidiosi amarcord sui “favolosi” anni ’70, nessuno già parla più.

P.S.: mezz'ora fa ho sentito per radio Morando dal Senato e Bersani in conferenza stampa. Il secondo dice che sulle pensioni "si può fare qualcosa". Il primo è stato più chiaro, partendo dai numeri, come  fa sempre. Bersani ha anche risposto, a chi gli chiedeva se ci sarà il tempo per fare le elezioni visto che dobbiamo "rispondere all'Europa", che "se non arrivano i gesti, arrivano le letterine". Il gesto sono le dimissioni: se Berlusconi se ne va, avremo tutto il tempo per fare ciò che serve. Vorrei tanto che avesse ragione, ma temo abbia torto.

domenica 23 ottobre 2011

A Bologna, a Bologna!

Vorrei essere a Bologna. Forse, dovrei essere a Bologna. Ma, a parte il mal di gola, mi è toccato spostare un po' di suppellettili. Da Ikea alla pancia di Milano, a Novi, alla pancia di Milano. Mi perdoneranno, spero.

Prometto che leggerò tutto. Che con Civati, come si diceva una volta, siamo di leva. Ma non è colpa sua. E la Serracchiani mi piace sin dall'inizio: non ha mai rottamato nessuno, ma l'hanno sempre criticata lo stesso. Tanto per dire, chi attacca e chi si difende. C'è pure Zingaretti, che me lo ricordo da quando ero ragazzino. E va bene così:  un'ottima compagnia.

Da qui ho capito tre cose, che mi piacciono assai.

La prima è che questa Prossima Italia vive nel mondo. E che, forse, abbiamo una possibilità di far crescere, anche qui da noi, la speranza che muove i giovani di tutto il pianeta nelle ultime settimane. Il vento, che dà tanto fastidio a qualcuno, ma che serve. Qui come altrove. Qui più che altrove.

La seconda: ci saranno le primarie del centrosinistra e ci sarà un candidato. Ottimo. Così si fa, senza tatticismi e furberie. Si lanci la sfida e vinca chi deve. E sia chiara la scelta, per tutti. D'Alema e Veltroni ci si mettano, se ne hanno il coraggio.

La terza: si facciano le primarie per scegliere i candidati al Parlamento. Tanto ovvio per qualunque persona di normale intelligenza, quanto inconcepibile per molti dei nostri. Che già me li sento a spiegare: "lo statuto prevede le primarie per la selezione dei candidati alle cariche monocratiche".  Farebbe ridere, non fosse che fa piangere. Primarie di collegio, perché i candidati li vogliamo scegliere. E oggi non chiedono un voto nemmeno ai direttivi di circolo, non dico agli iscritti.

Vabbé, ma questa roba nasce per ricostruire, mica per rottamare. Bisogna essere ottimisti e pensare alle proposte. Che poi, a ben vedere, la novità è rilevante: non si rottama nessuno, perché si sono già rottamati, senza rendersene conto. Tra autostrade e aeroplani, Tedesco e Calearo, aventinismi e grandi successi elettorali - come in Molise...- hanno fatto tutto da soli.

Ora tocca a qualcun altro.

Mentre andavo avanti e indietro con le mie suppellettili, ascoltavo Radio Radicale. Da Capri, i giovani industriali discutevano con giovani che fanno altro. C'era Zedda, il nuovo sindaco di Cagliari, che ha detto un sacco di cose, con quel suo sublime accento sardo, che trasmette tanta rassicurante fermezza. Questa mi è rimasta impressa: ti alzi al mattino e ti guardi nello specchio. È un attimo il passaggio dal chiederti cosa puoi fare oggi di buono al domandarti se ti convenga farlo. Quando compi quel passo, hai smesso di fare politica.

Ecco appunto, facciamo politica e ricostruiamo. Perché ricostruire è buono. E bisogna avere il potere che serve per fare le cose giuste. Che quali sono, le cose giuste, lo sanno tutti. Il problema è che ad alcuni non convengono.

venerdì 21 ottobre 2011

Pasta, fagioli e la ragione dei matti

Anche se a stare tre ore in una serra prendi un po’ di freddo, quando alla fine ti propongono una pasta e fagioli come quella dell’altra sera, tutto si sistema. Se poi ti fanno persino il live blogging delle due stupidaggini che sei andato a raccontare, c’è persino il rischio che tu ti senta un figo.
Comunque è stata una bella serata. Dico di martedì in Alessandria, con Gianguido Passoni e Rocchino Muliere – che non mi ha nemmeno bacchettato, ma dai… – con Giorgio Abonante. E ovviamente, con Mauro Buzzi.
Ho detto due cose, almeno ci ho provato. Che a me paiono fondamentali, specie di questi tempi e specie da quelle parti. Che quando Buzzi sarà sindaco di Alessandria ne avrà di problemi da risolvere per rimettere insieme i cocci del bilancio di quel comune. E non vorrei essere al suo posto.
La prima cosa: un bilancio comunale non è mai un fatto tecnico. Se vi spiegano che quella è roba da esperti, da cervelloni della finanza che ci capiscono, probabilmente vogliono fregarvi. I bilanci sono una questione politica e lo sono ancora di più nei periodi difficili. Tocca alla politica fare le scelte e assumersi le responsabilità del momento. Tocca alla politica decidere dove e come ridurre la spesa o aumentare l’entrata per tenere in ordine i conti. Il resto sono balle. E se qualcuno spera di risolvere i problemi di bilancio mettendo insieme un pool di cervelloni, si sbaglia di grosso.
La seconda cosa: chi considera i servizi pubblici come un “Bene Comune” deve lavorare perché le aziende a proprietà pubblica siano più efficienti e non meno efficienti di quelle private, più economiche e non meno economiche, più e non meno capaci di produrre servizi a costi competitivi. Perché a farne una questione ideologica e basta, non si risolve ma si rischia di peggiorare un quadro già non esaltante, dando via libera ai peggiori istinti: aziende gestite da politici e amici “da sistemare”, carriere manageriali cresciute al riparo da ogni concorrenza, assunzioni clientelari, piccoli e grandi spazi di potere che si consolidano. C’è pieno di gente pronta ad approfittare della ripubblicizzazione delle società di servizi, per farsi i fatti propri a spese di tutti. Non meno di quella che ha approfittato delle semi-privatizzazioni degli ultimi vent’anni per fare la stessa cosa.
Ho scoperto che anche a Torino – pure loro parlano di “Gruppo Locale”, come faccio io… – i manager si incazzano e difendono l’autonomia delle aziende. E ti spiegano che loro discutono col sindaco. Magari una volta all’anno, nell’assemblea di bilancio. E forse anche per questo tanti cittadini hanno votato Sì al referendum: perché se la proprietà è pubblica, cioè mia, io voglio contare e decidere. E voglio che quelli che ho eletto contino e decidano. L’ideologia non c’entra niente. Elementare, o no?
Le stesse cose, più o meno, le ho ripetute il giorno dopo a Novi Ligure. Se ne riparlerà presto. Qui, almeno, che il bilancio è una questione politica lo abbiamo capito da un pezzo. E forse stiamo un po’ meglio anche per questa ragione. Per il resto, io di governance del “Gruppo Comune” parlo e straparlo da anni.
Parlo e scrivo e non cambia mica niente, ma tutti mi danno ragione. A volte mi sembra la ragione dei matti.

domenica 16 ottobre 2011

La Domenica delle Salme

Sinceramente, io provo un certo schifo. Per come vanno le cose da queste parti. E per il tenore di un discorso politico che non riesce a liberarsi da riflessi condizionati più vecchi - persino - di me.

Per evitare di essere iscritto, immagino insieme a Mario Draghi, nel novero dei "cattivi maestri", recito subito la doverosa litania: la violenza non è mai giustificata e va sempre condannata senza se e senza ma. E i violenti vanno isolati e le ragioni della protesta rischiano di essere offuscate ecc. ecc. Ma va? A posto così? Ora possiamo parlare di politica?

Ci provo. Io trovo che nel giudizio e nell'uso che si fa in queste ore delle devastazioni romane di ieri, ci sia il segno del mostruoso ritardo politico e culturale della nostra povera Patria. Prigioniera di uno schema e di un linguaggio nati negli anni '70. Quando io nascevo e quando i protagonisti della vita pubblica attuale iniziavano a fare politica. E, in qualche caso, a tirare le molotov.

Ci sono poche centinaia di violenti, che l'antiterrorismo mostra di conoscere, elencando uno per uno i centri sociali dove si raccolgono e si organizzano. Questi signori arrivano a Roma, armati di spranghe, caschi, esplosivi, bombe molotov. Nessuno li vede, nessuno li ferma. Raggiungono il centro della Capitale della Repubblica e lo mettono a ferro e fuoco.

Ora, in un Paese normale, di fronte a questa devastante dimostrazione di incapacità, accadrebbe una cosa semplicissima. Il Ministro degli Interni, insieme al Capo del Governo, si presenterebbe in televisione. Con voce tremolante e una goccia di sudore che scende dalla fronte, cercherebbe di giustificarsi, di spiegare cosa è andato storto. Illustrerebbe poi quali misure intenda prendere per evitare il ripetersi di un fatto simile. Cercherebbe di argomentare, ma in cuor suo penserebbe: "Ora, cosa diavolo gli racconto a questi qua?"

In Italia, invece, i responsabili della sicurezza e dell'ordine pubblico - gli uomini di governo che hanno il compito di farci vivere tranquilli e al sicuro dalla violenza - protestano contro la violenza di piazza, solidarizzano con agenti di polizia che loro stessi hanno mandato a farsi massacrare nelle piazze, danno la colpa agli avversari. Tutto questo è possibile perché siamo negli anni '70. O meglio, ci sono rimasti loro. Insieme a chi chiede al "movimento" (parola degli anni '70) di "isolare i violenti" (espressione degli anni '70), magari organizzando un adeguato "servizio d'ordine" (come negli anni '70).

Si può dire che è ora di smetterla? Lo diciamo che, anche in Italia, sarebbe il momento di poter manifestare liberamente - come avvenuto ieri pacificamente in un migliaio di piazze nel mondo - senza la minaccia dei "violenti", semplicemente perché lo Stato democratico si occupa di isolarli e di impedire loro di fare danni?

C'è un'anomalia italiana in questa vicenda. La dietrologia è un altro arrugginito arnese degli anni '70. Come lo è però la sua alternativa, cioè la pretesa di raccontare l'Italia come l'unico Paese democratico dove la violenza sarebbe connaturata a qualunque espressione di dissenso politico che venga dai più giovani. Cos'è, un problema antropologico, magari etnico? Ma dico, scherziamo?

Un po' di trasparenza e di onestà intellettuale, insieme alla doverosa assunzione di responsabilità da parte di chi avrebbe il compito di garantire l'ordine pubblico nella Capitale della Repubblica, sarebbero il miglior antidoto a ogni tentazione dietrologica. Lo dico con calma: il Ministro degli Interni, in casi come questo, si dimette. Fine del discorso.

Oppure continuiamo così. E Continuiamo a chiamare ragazze e ragazzi nati all'inizio degli anni '90 - come dieci anni fa quelli nati all'inizio degli anni '80 - a rispondere dei sensi di colpa che la generazione politica dei loro padri, ormai quasi nonni, si porta dietro dai tempi delle molotov, dei servizi d'ordine, delle spranghe, delle P38.

La Domenica delle Salme si sentiva cantare: quanto è bella giovinezza, non vogliamo più invecchiare.

martedì 11 ottobre 2011

Non abbiamo fatto il Pd per questo

L’amico Gianfranco Gazzaniga ha detto la sua nel dibattito “generazionale” che si è aperto da qualche giorno su questo blog. Mi sono permesso di postare il suo commento da facebook, che potete leggere qui.
Franco è persona che stimo. È anche merito suo – che ha fatto per anni il revisore dei conti – se il bilancio del Comune di Novi sta meglio di altri. Anche per questo, l’ho sostenuto nella sua sfortunata avventura da candidato a sindaco di Bosco Marengo. Siamo stati in due ad appoggiarlo apertamente: un alessandrino ex AN – finché il PdL non l’ha fermato – ed io. I nostri, riformisti e massimalisti, sono rimasti a casa. Tutti. Cose che succedono, specie se non fai parte del “cerchio magico”.
Franco fa due ragionamenti: uno riguarda le professioni liberali, l’altro la dialettica interna al Partito Democratico. Il primo è più interessante, sul secondo farò solo un passaggio.
In effetti, sono abbastanza consapevole del fatto che i lavoratori autonomi non sono tutti evasori fiscali e spesso si ammazzano di lavoro. Chi conosce me e la mia famiglia lo dovrebbe immaginare. Né ho mai messo in discussione che molte carriere professionali siano costruite sull’esercizio quotidiano dell’impegno e del sacrificio. Bene, ma non mi spiego perché ogni volta che si discute delle scarse opportunità per i giovani, qualcuno si senta in dovere – e in diritto – di raccontare la propria “gavetta”.
Non stiamo discutendo di questo, quando analizziamo gli spazi inesistenti per i più giovani nel mercato del lavoro e delle professioni. È un dialogo tra sordi, che segna una distanza culturale profonda. E mostra l’inadeguatezza degli strumenti di analisi che la generazione precedente alla mia utilizza per comprendere la società di oggi. In fin dei conti, l’idea è che i giovani non abbiano voglia di sbattersi, “mica come ai nostri tempi…” Talvolta con qualche contorno vagamente new age sul coraggio di innovare e di mettersi in gioco. E tu vagli a spiegare che dieci anni di precariato senza prospettive non sono una “gavetta”, ma si chiamano sfruttamento. E che anche molti giovani professionisti lavorano dodici ore al giorno e pure sabato e domenica, ma guadagnano 400 euro al mese. Vabbé.
Comunque, non esistono professionisti iper-protetti. Salvo i non pochi collezionisti di incarichi dalla pubblica amministrazione. Sia Franco che io ne conosciamo alcuni: commercialisti, avvocati, architetti, ingegneri. A Novi, una volta siamo riusciti a dare qualcuno di quegli incarichi a giovani, senza tessera di partito, da poco entrati sul “mercato” della professione. Qualche giorno dopo, mi fermò per strada un anziano professionista – che stava fermo un giro, in quell’occasione – e mi chiese se doveva prendere “qualche tessera” per avere incarichi che egli riteneva gli spettassero di diritto. Ecco, parlo di questo e di molto altro. Anche di come gli ordini professionali selezionino le rose di candidati da sottoporre agli enti pubblici, quando c’è da fare qualche nomina. Vogliamo discuterne?
Il secondo ragionamento riguarda – ancora – la geografia interna al Pd. Mi si chiede – ancora – se io sia diventato “amico di Bersani”. Ecco, io penso con molta semplicità che D’Alema e il dalemismo abbiano fatto sufficienti danni da augurarci che spariscano alla svelta dalla scena politica. Per questo mi danno del “morandiano”, l’altro giorno addirittura del “migliorista”: una corrente di un partito che è stato sciolto 21 anni fa.
E invece io penso che Veltroni abbia fatto il suo tempo, ormai da un pezzo. Ha avuto la sua occasione, l’ha sprecata facendo il figo di Holliwood che se ne va. Per due volte e non verso l’Africa. Se a questo aggiungiamo lo stato in cui ha lasciato le casse del Comune di Roma, ce n’è abbastanza – dal mio punto di vista – per chiedere che anche lui si faccia da parte.
Si può partecipare al dibattito nel Partito Democratico senza iscriversi a nessuna delle due fazioni? Io spero di sì e cerco, per quello che ne sono capace, di rappresentare le opinioni di chi magari a questo partito nemmeno si iscrive. Forse perché ha capito che la dialettica tra destra e sinistra, d’alemiani e veltroniani, riformisti e quegli altri là dura da trent’anni. Ed è servita – più che altro – a garantire spazio e carriere a chi c’era allora. E continua a esserci oggi. Non abbiamo fatto il Partito Democratico per questo, mi pare.

lunedì 10 ottobre 2011

Idraulici. E avvocati

Il bello di avere un blog è che ti consente, qualche volta ti obbliga, a ragionare sulle cose prima di scriverle. I social network spesso ti fregano, se sei troppo generoso nell’inserire commenti. A questo proposito devo ringraziare Graziano Moro, per aver commentato il mio post precedente con un ragionamento che varrebbe da solo un post (leggi).

Sulla prima parte del ragionamento di Graziano potremmo anche trovarci d’accordo. Ha fatto delle importanti precisazioni, su cosa intenda con “fare l’idraulico” e “mettersi in gioco”. Forse siamo d’accordo anche sul fatto che un avvocato dovrebbe fare l’avvocato, magari in un mercato concorrenziale. Dove pure chi è più giovane possa lavorare, anche se non è figlio di avvocati.

Temo però che a Graziano sfugga ancora un aspetto. Non solo legato alla disponibilità di capitale di rischio per le nuove imprese. E capace di creare un insormontabile problema, di quelli che un tempo avremmo definito di “agibilità”.

Per essere molto chiari, non credo si possa proporre a un giovane di mettersi in gioco, magari cambiando città, se gli affitti sono quelli che ho citato nel mio post, se l’accesso alle professioni e al mondo dell’impresa è bloccato da chi è già dentro (non solo attraverso gli ordini professionali… e NOI in Parlamento ne stiamo istituendo altri, per le professioni paramediche, con la sola opposizione dei soliti Radicali), se il capitale a credito c’è – laddove c’è – solo quando il babbo ha qualche immobile da dare in garanzia.

La questione che sta facendo saltare i nervi a un po’ di persone tra i 25 e i 35 anni è la seguente: negli ultimi venti anni, in Italia, si è verificato un poderoso trasferimento di risorse dalla produzione alla rendita. Parlo della rendita immobiliare e finanziaria. Ma anche delle rendite di chi, essendo garantito, non ha bisogno di produrre in modo efficiente, che sia dipendente pubblico o professionista ipertutelato o pensionato più o meno baby. O forse le risorse non sono state trasferite. Forse sono semplicemente diminuite, ma la riduzione ha pesato soltanto su alcune tasche, non su altre.

Comunque, questo ha coinciso, anche, con un trasferimento di risorse tra generazioni, a danno dei più giovani. Come ho già avuto modo di spiegare, io sono tra i fortunati, che sono arrivati un po’ prima: prima dell’11 Settembre, prima dell’Euro, prima della crisi globale. Infatti, ho un lavoro a tempo indeterminato da 10 anni e mezzo e posso decidere di scegliere la carriera professionale, rinunciando ad altre prospettive.

Anche a proposito delle altre prospettive, Graziano fa alcune considerazioni. Lascio da parte quelle sulle regole, che io faccio e disfo. Le lascio da parte insieme al tentativo – nemmeno troppo dissimulato – di liquidare tutte le mie considerazioni sulla situazione politica locale e nazionale come frutto di “personalismo”. Sappiamo che l’individualismo è il peggior crimine di cui possa macchiarsi un buon militante del Pci e farei un torto a Graziano se lo annoverassi tra i nostalgici di quei metodi. Diciamo solo che resiste, persino in lui, qualche riflesso condizionato. E passiamo oltre.

Io credo, molto semplicemente, che la nostra piccola, minuscola e insignificante vicenda locale sia lo specchio di quanto avviene a livello nazionale. Non faccio la morale a nessuno, non nego a nessuno il diritto di stare in campo e di candidarsi – se lo ritiene – anche a ottanta anni e dopo essere stato sulla cresta dell’onda per sessanta anni. A me pare che tanto vittimismo di chi si sente minacciato dalla spinta rottamatrice sia solo un’efficace variante dialettica sul tema della “lesa maestà”.

Ci sarebbe semmai da riflettere su come il “paradigma” italiano si materializzi in persone tanto provate da una lunga vita di lavoro da scegliere la pensione a poco più di 50 anni, salvo poi essere pronti a dedicare i successivi quindici o vent’anni a fare gli assessori, i consiglieri, i parlamentari. Ma la pensione come occasione per potersi dedicare ad un nuovo lavoro quando si è ancora giovani, avendo la garanzia di una rendita vitalizia, è fortuna che, nella storia d’Italia, tocca ad una sola generazione.

In ogni caso, la questione che pongo – anche qui – è di “agibilità democratica”. L’esistenza di regole, come quella delle primarie, è un prerequisito fondamentale per garantire a tutti la possibilità di partecipare. Ma non è un requisito sufficiente. E se a confrontarsi sono, da una parte persone che fanno politica a tempo pieno da una vita, dall’altra quei ragazzi che passano da uno stage a un contratto a termine da dieci anni, è del tutto evidente che i secondi sono destinati a soccombere. A meno che non abbiano alle spalle qualcuno – una famiglia, una consorteria, una corrente, un padrino – in grado di sostenerli e di proteggerli da rischi ai quali i meno giovani non sono esposti.

A questo dobbiamo anche aggiungere l’atteggiamento, questo sì tutto ereditato dal vecchio Pci, per cui certe cose si possono pensare ma non si devono dire. Perché altrimenti facciamo brutta figura e la gente non ci capisce. Beh, per quanto mi riguarda, io non ritengo di dover nascondere ai quattro gatti che leggono questo blog quello che tutti sanno e di cui tutti parlano. Sarà un atteggiamento da “sfasciacarrozze”, ma almeno non ha il difetto dell’ipocrisia.

Come lo hanno invece le stupidaggini che alcuni fanno circolare a Novi Ligure e non solo sulle ragioni “vere” della mia scelta. Una scelta che è diventata pubblica, semplicemente perché un paio di bravi giornalisti mi hanno fatto una domanda, alla quale ho risposto con sincerità. Per il resto, non faccio la morale a nessuno, ma provo a raccontare la realtà per come la vedo.

sabato 8 ottobre 2011

Bamboccioni a Covent Garden

Il mio amico avvocato, col quale si discuteva di opportunità australiane passeggiando per Covent Garden, segnala su Facebook le preoccupazioni di Mario Draghi per il futuro dei giovani. E dell'Italia, che sono legati.

Se tra le migliori menti economiche italiane siamo passati, in pochi anni, dai "bamboccioni" del compianto Padoa Schioppa a questo, vorrà dire che qualcosa è cambiato. Nei fatti, o forse nella percezione che ne hanno i nostri più bravi economisti.

Matteo Morando, l'avvocato, si è incazzato per la risposta di Graziano Moro. Graziano - che è un caro amico, tanto che ancora mi dicono siamo compagni di "corrente" - ha il merito, rispetto ad altri, di una carriera professionale nell'industria privata. Ha anche lui un blog, ha viaggiato molto. Ora fa l'assessore in Provincia, andrà in pensione, poi vorrebbe fare il sindaco di Novi Ligure. Per chiudere in bellezza, si capisce.

Dice nel suo commento: il problema è che non sappiamo spiegare ai giovani che, con una laurea, si può anche fare l'idraulico o il fabbro. E che i giovani italiani sono schiavi di un paradigma (che parole...): pretendono il posto nel pubblico per assentarsi quando vogliono, non cambiare città e dedicarsi a tutto tranne che al lavoro. Mancano di quello spirito imprenditoriale che serve alla crescita.

Draghi non ha capito niente. Non è questione di opportunità per i giovani. È proprio che non ne hanno voglia. Bamboccioni e accidiosi. Tiè!

Da buon riformista, come mi hanno insegnato fin da ragazzo i riformisti che più riformisti non ce n'è, provo a partire dalla realtà. Guardarsi attorno e capire. Guardarsi attorno e confrontare: i "giovani d'oggi" coi loro genitori.

Mi volto da una parte e vedo menti meravigliose che hanno scelto la scuola - quando ancora si assumevano insegnanti - perché garantiva stipendio e pensione. Vedo  pensionati in tenera età e altri che protestano perché avranno la pensione, addirittura, dopo 36 o 37 anni di lavoro. Vedo carriere politiche fondate su decenni di aspettativa da impieghi ipersicuri nella pubblica amministrazione. Non vedo, tra i padri, questo esercito di coraggiosi innovatori. Non vedo un Enzo Ferrari né un Guglielmo Marconi. Vedo, al massimo, qualche Della Valle o Cordero di Montezemolo. Steve Jobs apparteneva a quella generazione. Ma era americano, non italiano. Occhei?

Mi volto dall'altra parte e vedo ragazzi iperflessibili, che passano da uno stage a un contratto a termine da dieci anni. Che non cambiano città, anche se sarebbe tanto facile, coi loro stipendi poi... a Milano un monolocale a 700 euro più spese, un bilocale a mille più spese. E sei mesi anticipati. Vedo giovani che nemmeno sanno cosa sia un posto di lavoro nel pubblico. Perché non si assume più nessuno. O no?

Ecco, se c'è un paradigma italiano che tarpa le ali alla crescita, ne sono protagonisti i padri, non certo i figli. E ancora continuano a difenderlo, per proteggere sé stessi e l'indifendibile di una società che ha vissuto per trent'anni al di sopra delle sue possibilità. Mangiandosi il pasto di una o due generazioni a venire.

Che poi i padri facciano pure la morale ai figli lascia senza parole.

in viaggio con Manubrio