lunedì 9 luglio 2012

Il rigorista


Dicono io sia un “rigorista”. E pensare che mi è sempre piaciuto giocare in porta. Vabbé. 
Ma “rigorista”, in questi giorni di improbabile revival keynesiano, è un mezzo insulto. Un rigorista è una specie di mostro, con la faccia della Merkel, spigliato come un Mario Monti e dotato di estremità alla Edward Mani-di-Forbice, che tagliano a caso e diffondono il panico tra gli astanti. Insomma, a dispetto del nome, niente da spartire col cucchiaio di Pirlo, la sua fantasia, il suo coraggio.
Sto iniziando a pensare che ci sia un problema di linguaggio, se facciamo tanta fatica a capirci. O forse, qualcosa di più profondo. Addirittura. Ma andiamo con ordine.
La spending review contiene molti tagli. È abbastanza normale se l’obiettivo è recuperare qualche miliardo di euro ed evitare un aumento delle tasse. Ci sono tagli e tagli, mi hanno spiegato, chiedendomi se sia d’accordo che si tolgano soldi ai ricercatori del bosone di Higgs. O agli ospedali. O ai comuni virtuosi, invece che ai viziosi... No che non sono d’accordo, ma non c’entra niente.
Non c’entra, semplicemente perché la questione è un'altra. Se penso che un taglio sia sbagliato, propongo un diverso risparmio, per trovare comunque le risorse che servono. Se penso che il “taglio lineare” non vada bene, ne propongo uno trasversale o perpendicolare, ma dico dove e come si deve tagliare invece di togliere il tot per cento a tutti. In definitiva, mi pongo il problema di avanzare delle alternative, serie e credibili, a quello che mi viene proposto. Specie se ho l’ambizione di definirmi una forza di Governo.
Non appartiene a questo metodo limitarsi a fare l’elenco dei tagli intollerabili, se non altro perché basta chiedere ad un numero sufficiente di categorie economiche o sociali per registrare sufficiente intolleranza verso ogni singola ipotesi di risparmio. Qualcuno è contrario ai tagli sulla ricerca, qualcun altro non sopporta la chiusura dei tribunali, uno non vuole accorpare le province e io non voglio il taglio dei trasferimenti agli enti locali, perché tocca a me far quadrare il bilancio del Comune. Potrei continuare all’infinito, o quasi.
Non appartiene a questo metodo nemmeno dire che, se i professori sono tanto bravi, lo dimostrino. Cioè, siano capaci di salvare la baracca dei conti pubblici e rilanciare l’economia, senza diminuire la spesa e senza aumentare le tasse. Possibilmente, con una mano dietro la schiena, bendati e in bilico su una corda... E dai!
Qui c’è poco da discutere tra socialdemocratici e liberali: la spesa pubblica non è sbagliata in sé, ma volerla ridurre non significa essere terribili reaganiani al soldo del Capitale. Soprattutto se ti è dato di vivere – e discutere – in Italia, nel 2012. Dove la spesa pubblica è elevata, come lo è la pressione fiscale. Dove la spesa pubblica ha alimentato clientele e privilegi che la gran parte dei cittadini ritiene intollerabili. Dove esiste una domanda – non di “tagli” – ma di un settore pubblico efficiente e capace di supportare le imprese e di una politica onesta, che non usi la spesa per ottenere consenso, che preferisca la concretezza alla propaganda. E dove il rischio di fare una brutta fine è ben presente a tutti quelli che non vivono con la certezza illusoria di essere al riparo da ogni pericolo, da ogni concorrenza, da ogni crisi. Lo hanno capito in tanti, se persino tra gli elettori del Pd prevale - dicono i sondaggi - il giudizio positivo sulla spending review.
Io spero che nel mio Partito prevalga, sulle tentazioni della propaganda, l'equilibrio di cui abbiamo tanto bisogno. Che non si invochi Keynes per difendere inefficienze e privilegi ormai non più tollerabili. Che si comprenda la straordinaria complessità di questo momento e la necessità di uscire dal guscio rassicurante del mondo – un mondo per pochi – come lo abbiamo conosciuto per decenni.
Spero questo, perché non voglio che l’Italia faccia la fine della Grecia. E preferirei anche che il mio Partito non facesse la fine del Pasok: un partito non meno glorioso e non meno socialdemocratico di come vorremmo il Pd, identificato dai Greci – a torto o a ragione, ma temo purtroppo a ragione – come il principale responsabile della bancarotta.
Tutta questa roba c'entra anche con le primarie. Forse per questo - anche se non si deve dire - c'è in giro tanta gente che le primarie non vuole proprio farle.

Nessun commento:

Posta un commento


in viaggio con Manubrio